La storia della paleontologia ci dice che il periodo neolitico inaugura grandi cambiamenti per la razza umana, che impara a coltivare la terra, ad allevare il bestiame, a conservare seppur modeste quantità di riserve alimentari, cosicché i cacciatori non sono più costretti a battere incessantemente il territorio per trovare nuovo cibo spostandosi continuamente con la famiglia al seguito. Ruolo determinante nel cambiamento della struttura primordiale, organizzata a livello familiare-tribale, rivestono le donne che per prime imparano che i semi raccolti e restituiti al terreno possono generare nuove piante e nuovo cibo, purché si curino i germogli e si aspetti la loro maturazione dopo un opportuno arco di tempo.
Inventata l’agricoltura, la comunità umana diventa da nomade stanziale, nasce il bisogno di ‘abitare’ (habere, nel senso etimologico non solo di occupare stabilmente, ma anche di possedere) il luogo dove raccogliere ciò che si è seminato, si sviluppano la necessità e la capacità di costruire abitazioni sempre meno precarie, più solide e confortevoli, si struttura l’idea di un’architettura profondamente radicata nel contesto spazio-temporale destinata a durare non solo in virtù della sua possibilità di sopperire a necessità funzionali, ma anche per i contenuti simbolici, universali e atemporali attraverso i quali essa diviene concreta testimonianza della storia degli uomini da cui è stata generata, nel luogo in cui è stata realizzata.
Tale è rimasto, immutato nel tempo e per larga parte della popolazione del pianeta, il concetto di architettura.
Poi venne la globalizzazione e, come destandosi da un sonno durato secoli, l’umanità si rese conto che l’impellenza dell’abitare in realtà era pari a quella dello spostarsi.
Ma non sempre e non per tutti spostarsi equivale ad addentrasi in stimolanti avventure, spesso vuol dire sradicamento, precarietà, paura dell'ignoto, timore dell'altrove.
“Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti", così scrive Italo Calvino ("Le città invisibili”, 1972), mettendo l'accento sull'atto del possedere identificato nell'abitare e nell'appartenere ai luoghi, per quanto 'estranei e non posseduti', nei quali cercare di rintracciare un passato non perduto, ma solo dimenticato.
Il nomade del terzo millennio insegue un sogno: trovarsi in ogni luogo come a casa propria senza tuttavia spostare casa propria in ogni luogo.
Può essere questo il motivo dell’indiscriminata diffusione ad ogni latitudine del mondo civile di strutture sostanzialmente indifferenziate, per cui Frank Gehry propone ovunque i suoi grovigli in titanio o Hadid la sua architettura diagrammatica “che volge lo sguardo a tutti i possibili stimoli dall'Asia all'Africa, dalle Americhe all'India” come scrive Germano Celant, nella convinzione o almeno nella speranza che il nuovo nomade riconosca in quelle architetture ripetitive le stesse che ha già visto nel suo paese in un "passato che non sapeva più d’avere", sia esso in Asia, in Africa, nelle Americhe o in India, creandosi così l’ingannevole illusione dell’esistenza di un mondo a scala familiare dove essere sempre a casa, o la consolatoria certezza di poterci comunque ritornare.
In realtà il nuovo nomadismo è un fatto mentale prima che territoriale, riguarda una concezione olistica di democrazia, di mercato, di lavoro, di fede, di società, quelle che Jacques Attali individua come forze nomadi, flussi migratori che oggi partono da un computer e trasportano informazioni ed opportunità, nuove tecnologie del viaggio, reale o virtuale che sia, che permettono l’accesso allo straniero portatore di innovazione, creatività, nuove idee e inedite visioni.
Il nuovo nomadismo è una condizione esistenziale sia del singolo che della collettività, condizione filosofica, culturale, sociale, plasmabile su un nuovo modello di “cittadinanza flessibile”, come la definisce Rosi Braidotti, rispettosa sia dell’autorità della comunità che della libertà del singolo, pacifica sintesi tra varie diversità (o multiversità): in questi termini, “una teoria della soggettività che sia al contempo materialista e relazionale, natural-culturale e capace di autorganizzazione è cruciale al fine di elaborare strumenti critici adatti alla complessità e alle contraddizioni del nostro tempo” (Rosi Braidotti, “The Posthuman”, 2013).
Da qui la necessità di dotarci di “nuovi schemi di sapere e risorse di autorappresentazione diversi da quelli correnti. Fino al ripensamento delle stesse scienze umane, prossime all’estinzione se non saranno capaci di seguire un processo sostanziale di trasformazione che il presente chiede con il salto in una più efficace multiversità” (Alessandra Pigliaru, “Il tramonto dell’umano”, 2014).
L’architettura non può chiamarsi fuori da questo processo di trasformazione, barcamenandosi tra soluzioni generaliste, scegliendo di edificare ovunque per chiunque, in ciò assecondando una cultura globale del tutto teorica (e retorica), senza cogliere la dimensione nomade di un’utenza itinerante in una ‘liquidità’ sociale che ha irrimediabilmente stravolto il modo di stare nel mondo, aprendosi alla cultura di quella che Paolo Giardiello chiama "leggerezza insediativa" ("Abitare al minimo", 2010).
Una lezione che l’arte moderna ha già recepito e, germinando dalle rivoluzionarie premesse del ‘900 (Dadaismo, Fluxus ecc.), si ridefinisce come arte ibrida, indeterminata, meticcia e vagabonda, l’arte live della performance, dell’happening, della Body Art, della Street Art, un’arte cross-over, trasversale e senza confini, che mischia elementi e approcci diversi inventandosi strumenti nuovi per relazionarsi con le idee prima che con i luoghi attraverso messaggi ed informazioni di significato sovra-culturale: se oggi appare chiaro che è questa “la funzione moderna assegnata all’arte del proprio tempo”, già dal ‘900 si capiva che “l’arte si sarebbe progressivamente lasciata assorbire da tutti i discorsi possibili su di essa, sarebbe insomma esplosa fuori dai propri confini, rinunciando a regole, statuti e certezze.” scrive Alessandro Tempi ("I confini il segno la trascendenza").
Come sempre, l’arte precede.
Ma anche l’architettura non può ignorare che la realtà sociale flessibile e mutante di un’umanità perennemente delocalizzata esige nuove forme di abitabilità, secondo “una diversa concezione del costruire non come realizzazione, ma come condizione dl pensiero” suggerisce Jacques Derrida, che già nel testo del 1985 “Maintenant l’architecture” pensa a un’architettura che inventi “un nuovo abitare che non corrisponda più alle vecchie condizioni”, seppure partendo da un punto di vista filosofico-letterario che ben poco ha di strettamente architettonico (lo stesso Derrida appare infatti poco convinto dell'adozione delle sue teorie da parte del movimento decostruttivista), centrato com’è sulla decostruzione dei fondamenti e sulla messa in discussione di valori o significati di una disciplina che, anche etimologicamente, rimanda invece al principio di ‘costruzione secondo regole’.
Dopo anni di architettura creatrice di nuovi bisogni, è necessario ora riflettere su quali siano invece i reali bisogni dell’essere umano, non assoluti, non codificati, ma specifici di un determinato momento nel tempo e nello spazio del mondo.
E cambiare le regole.
link:
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