Tanto più che, a monte di tutto, sta un irrisolto
interrogativo tra i più dibattuti della storia dell'umanità
(beninteso dopo il classico "chi siamo? da dove veniamo?
dove andiamo?"): cos'è l'arte? perché
l'uomo fa arte? e perché ne è affascinato?
Prendendo comunque per buono ciò che ci insegna Gombrich,
che cioè non esiste una 'cosa' chiamata arte, e che
"l'opera d'arte significa dunque ciò che significa
per noi, non c'è altro criterio", lasciando
quindi a ciascuno le proprie convinzioni sull'arte e sui suoi
camaleontici significati, viene da chiedersi perché
tante persone, seppure autorizzate dall'essere in materia
colte e qualificate, sentano la necessità di 'spiegare'
l'arte contemporanea o suggerire come guardarla o valutarla
o giudicarla, nella impossibilità tuttavia, condensata
nell'interrogativo di cui sopra, di poter definire in maniera
univoca ed omogenea che cosa sia effettivamente l'arte, specialmente
quella contemporanea.
Per la verità Francesco Bonami, nella introduzione-intromissione (così la definisce) del suo ultimo lavoro, ci invita a pensare con la nostra testa,
ritenendo che all'arte "ci si debba accostare da soli,
se veramente ci interessa", ma poiché nessuno
fa un discorso chiedendo agli interlocutori di tapparsi le
orecchie, dopo questa esortazione non si esime dallo scrivere
sull'argomento un bel libro ironico e (apparentemente) leggero,
discorsivo e scorrevole, pieno di annotazioni e curiosità,
nonché di autorevoli giudizi.
Premettendo che ci sta
raccontando semplicemente quello che sa e ciò che pensa
di quello che sa, in una sua personale e soggettiva visione
dell'arte contemporanea, in realtà ci guida alla lettura
di episodi salienti di quel mondo, ritagliando su misura all'argomento,
con il rasoio di Ockham, un 'senso' talmente lato da poter
compendiare tutta la storia dell'arte dai graffiti delle caverne
di Lascaut ad oggi: è vero che certe opere d'arte contemporanea
avrebbe potuto farle qualunque uomo della strada, ma c'è
stato chi le ha fatte prima, e questo fa la differenza.
E' curioso notare che anche in passato artisti al di sopra
di ogni sospetto quanto a talento come Michelangelo o Caravaggio,
quando erano 'contemporanei' hanno avuto le loro difficoltà
di 'comunicazione', ma a quel tempo, quando non sono stati
capiti, non sono neanche mai stati 'spiegati', al di là
di chiarimenti iconografici o informazioni biografiche o particolari
di cronaca forniti da volenterosi esegeti sempre e comunque
legati al significato descrittivo e narrativo delle opere,
quello che tutti, in misura diversa, potevano leggere anche
senza aiuti.
Perché in passato l'arte aveva come saldo riferimento
la realtà, voleva essere una mimesi del mondo, anche se, come ci ha poi insegnato
Freud, i significati nascosti erano ben più numerosi
ed illuminanti di quelli palesi, ma a quanto pare allora se
ne poteva fare a meno.
E' invece vero che ora, da che l'arte è divenuta tutta
più o meno concettuale, concentrata nei suoi soli significati
psicologici o simbolici, guardare un'opera d'arte può
voler dire addentrarsi in un labirinto senza il conforto di
un seppur tenue filo d'Arianna, con il rischio di non uscirne
indenni.
Tuttavia, se l'arte, specie quella concettuale, è prima
di tutto com-passione, empatia, intuizione, se, come pare,
la fruizione estetica ha sì basi biologiche comuni
e reali, però in un cervello che è diverso per
ogni uomo, ed anche nello stesso uomo in momenti differenti,
appare problematico che possa essere 'spiegato' o guidato
con opportune 'istruzioni per l'uso' un percorso così
aleatorio e indefinito quale è quello dell'emozione:
forse la parte condivisibile dell'esperienza estetica, ciò
che può essere spiegato, è solo il suo risvolto
razionale, perché solo sul terreno della ragione e
della logica ci sono buone probabilità che la stessa
cosa abbia per molti, se non per tutti, lo stesso significato,
a monte spiegabile e a valle comprensibile.
Ci pensa Joseph Beuys , "artista di talento"
che ha "segnato la storia dell'arte del Novecento",
come ci informa Bonami, a darci uno spunto con una sua celebre
performance del 1965, 'Come spiegare dei dipinti ad una
lepre morta', in cui egli, con la testa cosparsa di mirra
e miele, porta delicatamente in braccio l'animale senza vita
davanti ad alcuni quadri appesi, facendoglieli toccate con
la zampetta esanime, pronunciando un discorso muto che li
descrive nel loro significato concettuale. La provocazione
messa in scena da Beuys vuol significare, così spiega
l'autore stesso, che davanti all'arte la capacità intuitiva
di una lepre morta è superiore a quella degli uomini
vivi, accecati dalla razionalità che preclude ogni
accesso all'irrazionalità dell'arte.
E se ogni interpretazione, sia pure soggettiva, di qualunque
opera contemporanea presuppone un atto cosciente e razionale
di analisi e di sintesi, sia che la si voglia condividere
con un pubblico di lettori sia che la si voglia etichettare
come riflessione limitatamente personale, allora la spiegazione
che essa fornisce non può essere che parziale, e limitata
inoltre all'aspetto meno significativo dell'arte.
Infatti, spiegare l'irrazionale è davvero missione
impossibile, almeno agli umani e forse anche alle lepri morte,
oltre che una palese contraddizione nei termini: una volta
spiegato, infatti, l'irrazionale non sarebbe più tale
...... e l'arte, una volta spiegata, continua ad essere arte?
Da qui l'ennesimo dubbio che va ad aggiungersi al già
citato: è possibile 'spiegare' l'arte contemporanea?
ma soprattutto, è necessario?
* articolo aggiornato il 23/10/2015
link:
Neuroestetica
Capire l'arte con il computer
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