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L'arte è un hamburger?
di Vilma Torselli
pubblicato il 10/11/2009
Sono contro l’universalismo perché è una creazione dell’occidente, perché è un’ideologia occidentale, e una forma di imperialismo culturale
(Serge Latouche)
Claes Oldenburg, “Floor burger” (1962)

Per l’arte visiva la globalizzazione è iniziata da quando , in un “regime di consumo” dell’arte, che parte da Duchamp e si struttura definitivamente con la Pop Art, si è concretizzato anche un “regime di comunicazione” sempre più totalizzante dove "l'artista non è un elemento a parte, separato dal sistema globale: non c'è autore, non c'è spettatore, solo una catena di 'comunicazione' che si chiude su se stessa" (Anne Cauquelin, "L'arte contemporanea", 1992).
Se da una parte la globalizzazione assicura un confronto senza confini in un mercato internazionale di libera circolazione delle immagini dove, almeno in teoria, chi più vale più viene conosciuto e premiato, d’altra parte finisce per dissipare ogni discorso individuale in uno spazio sostanzialmente anonimo.
Si può oggi affermare che non esiste un’arte contemporanea, quanto piuttosto che esistono tante singole opere contemporanee di artisti più o meno validi senza un patrimonio comune di idee e culture, cosa mai verificatasi in precedenza.

Sembrerebbe che ciò non possa che andare a beneficio della più assoluta libertà di espressione, nel rispetto del più estremo individualismo, se non fosse che il tutto avviene all’interno di un ferreo sistema di connessione degli interessi economici di gallerie, musei, grandi collezionisti, critici, che parte da quando, passata la Grande Depressione dell’America degli anni ’30, esplode da New York, nuova capitale artistica mondiale e nuova ‘casa’ fornita da Peggy Guggenheim agli artisti in fuga dall’Europa nazista, un boom economico che coinvolge anche il mondo dell’arte e dà luogo a quello che Lawrence Alloway, nel 1972, definisce per primo come ‘sistema dell’arte’.
Ovviamente, la globalizzazione ha fortemente favorito questo sistema, dato che si tratta di due evenienze che vanno nella stessa direzione e condividono le stesse intenzionalità.

Ancora oggi uno dei nomi che detengono le chiavi del potere nel mondo dell’arte è Guggenheim, marchio di una diffusa rete di musei in molte parti del mondo, da New York a Bilbao a Venezia a Berlino (dove è in joint-venture nientemeno che con Deutsche Bank), sinonimo di una vera e propria multinazionale dell’arte.
Non sono un segreto le trattative finanziarie precedenti alla realizzazione del Guggenheim di Bilbao, il gioco delle poltrone dei posti chiave, l’incarico del progetto all'archistar Frank Gehry in grado di garantire ‘a prescindere’ la risonanza dell’iniziativa.
Questa organizzazione internazionale gestisce attraverso le sue sedi praticamente la totalità delle opere del ‘900, dal Surrealismo al Cubismo, all'Astrattismo alla Pop Art e gestisce anche un bilancio da capogiro per ciò che riguarda l’indotto, vendita di cataloghi, di riproduzioni, gadget firmati, shop museum, guggenheim store, café museum ecc.
L’arte si inserisce così in un processo a largo raggio definito per antonomasia ‘americanizzazione’, intesa come "propagazione di idee, usanze, modelli sociali, industria e capitale americani nel mondo" (George Ritzer - "Il mondo alla McDonald's", 1997) assecondato da una parallela globalizzazione della comunicazione che ha come esito la trasmissione di informazioni in eccesso, semplificate nei contenuti, per una conoscenza superficiale, ma vastissima.
McDonaldizzazione è termine divenuto sinonimo di globalizzazione, poiché entrambi designano un collaudato modello funzionale di successo planetario, una struttura controllata, efficiente, prevedibile, completamente asservita alla logica di mercato, sovrapponibile a tutti i fenomeni sociali e culturali, dall'alimentazione al lavoro, al tempo libero, alla politica, alla famiglia, e, perché no?, all’arte.
Coincidenza curiosa ed entro certi limiti divertente il fatto che il supermanager Mario Resca, attualmente consigliere del ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi, fosse l’ex presidente di McDonald’s Italia!

Non solo il modello espositivo, il layout museale, l’organizzazione dell’indotto si ripetono invariati passando da una città all’altra, da una nazione all’altra, da un continente all’altro, ma sempre più spesso è la stessa mostra a trasferirsi in toto, nel nome di una sorta di universalismo culturale che vuol offrire omogeneamente lo stesso prodotto nello stesso modo in ogni parte del mondo, si tratti di hamburger o dipinti: è il caso della mostra sulla Bauhaus (settembre/ottobre 2009) che passa da Berlino a New York, della mostra di Tiffany (2009/2010) che viaggia tra Parigi e Montreal, della mostra di Hopper che si trasferisce nel 2010 da Milano a Roma a Losanna, della mostra sul Futurismo, quella su Hans Hartung, mostre itineranti che, secondo una ben oliata catena di montaggio, seguono i percorsi degli accordi finanziari e delle convenzioni economiche sottoscritte dalle multinazionali dell’arte.
In questo modo, la scelta per l’utente, anziché allargarsi, in realtà si canalizza in percorsi guidati a scapito della varietà e della concorrenzialità dell’offerta e a beneficio di un consumo generico e indifferenziato, che viene benevolmente detto ‘multiculturale’.

Sono contro l’universalismo perché è una creazione dell’occidente, perché è un’ideologia occidentale, e una forma di imperialismo culturale” afferma Serge Latouche in un’intervista del 2004, e in un’altra occasione (2007) ribadisce “Quello che va demistificato è l’uso che si fa del multiculturalismo per nascondere il terribile dramma dell’uniformazione planetaria: la diffusione generalizzata di McDonald’s, della Coca-Cola, di un modo di vita occidentale che viene presentato come ideale ……...

Come per qualsiasi prodotto commerciale, o commercializzabile, l’arte è oggi detentrice di significati simbolici frutto di attente indagini psico-antropologiche, con una netta prevalenza del “potere del concetto sull'oggetto” ridotto a firma, non solo quella dell’artista, ma dell’organizzazione economica che lo gestisce.

Riferendosi alla strisciante McDonaldizzazione, con un ottimismo che forse alcuni anni fa poteva essere giustificato, scrive Alessandra Galasso (Il pensiero creativo : un antidoto al processo di McDonaldizzazione. 2000): "se oggi c'è un'area in cui tali principi stentano ancora a mettere le radici, questa è proprio quella delle discipline creative [....] Proprio perchè così scarsamente efficienti, calcolabili, e prevedibili ma al contrario aleatori, voluttuari, individualisti, capricciosi e fondamentalmente inutili, secondo i criteri valutativi della società fast food, le discipline creative, prima fra queste l'arte, hanno un'enorme responsabilità: quello di porsi come antidoto. Invece di sentirsi incompresi, emarginati e lontani dai proiettori del circo della società dello spettacolo, tutti coloro che operano in questi settori dovrebbero rivendicare il proprio ruolo di elementi di disturbo. Persone che hanno come scopo principale quello di invertire e scombinare i luoghi comuni, sfidare le credenze preaquisite e svelare le incongruenze, le irrazionalità del sistema, l'alienazione dell'essere umano vittima della McDonaldizzazione.L'inutilità opposta alla massimizzazione dei risultati, la qualità anziché la quantità, l'imprevisto anzichè il déja vu."

Tuttavia, a giudicare da ciò che si è poi verificato, pare proprio che la lotta sia impari e che l’arte non sia diversa da un hamburger.

Che Claes Oldenburg l'avesse già intuito quasi mezzo secolo fa?

link:
Claes Oldenburg, "Trowel I"
Arte e mercato
Il caso Schnabel ed il boom della pittura contemporanea


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