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American Art 1961-2001 la storia dell'arte moderna negli Stati Uniti tra due momenti decisivi della storia americana, la guerra del Vietnam e l'attacco alle Torri Gemelle. |
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I vincitori del Premio Pritzker per l'architettura 2021 sono Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal: talento, visione e impegno per migliorare la vita delle persone. |
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Parigi, all’Espace Lafayette-Drouot "The World of Bansky”, su 1200 mq. esposte un centinaio di opere del più famoso street artist del mondo. Fino al 31 dicembre 2021.
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Alessandro Tempi
Intervista
pubblicato il 02/06/2006 |
Artonweb: Tu sei un critico
in qualche modo "anomalo"
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Alessandro Tempi: Credo dipenda dalle circostanze nelle quali mi sono
avvicinato all'arte contemporanea.Io non ho fatto studi
specifici - mi sono laureato in Lettere con una tesi su
Marshall McLuhan - ma subito dopo la laurea ho cominciato
a scrivere su un giornaletto locale in cui, per ritagliarmi
uno spazio, tenevo una specie di rubrica in cui parlavo
di mostre, di antiquariato, di collezionismo, perfino di
design. Poi nel 1988 ho cominciato a recensire mostre per
un quotidiano di Firenze e da lì è nato tutto.
Ho cominciato a fare le mie prime mostre come curatore -
una anche al Pecci di Prato -, a scrivere su riviste specializzate,
ma gradatamente ho cominciato ad interessarmi di problemi
teorici, di estetica, di teoria dell'arte ed è essenzialmente
di questo che oggi mi occupo. |
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Artonweb: Ma continui
a curare mostre, mi sembra
Alessandro Tempi: Sì, ma solo di artisti
che mi interessano veramente. L' "anomalia" forse
sta anche in questo.
Artonweb: A giudicare da quello che scrivi,
anche le tue teorie sono un po' "anomale"
Alessandro Tempi: Sono un critico che crede alla
provvisorietà della propria funzione. Gran parte
del nostro lavoro dovrebbe consistere nel portare il pubblico
a non avere più bisogno di noi, ma questo, a dire
la verità, nessuno lo vuole, né il pubblico,
che delega volentieri ai critici la funzione interpretativa,
né i critici stessi, per un'ovvia questione corporativa,
si direbbe. Nessuno ama pensare che il proprio lavoro sia
a termine.
A.: Cos'è che non va nel lavoro del critico?
A.T.: Quella del critico è una professione
agnostica, nel senso che ti porta a parlare dell'arte senza
mai porre in questione la sua esistenza. Mettendola in termini
filosofici, possiamo dire che la funzione critica oggi fa
molta paralogia e poca ontologia, ci offre ragionamenti
e spesso sofismi intorno a qualcosa chiamata arte, ma non
ci dice perché quel qualcosa è effettivamente
arte. Per dirla in altri termini, non ci si preoccupa più
se una cosa è arte, ma se fa arte. Così il
fa arte è quello che abbiamo al posto dell'arte,
vale a dire un surrogato al posto dell'opera, un ersatz,
insomma. E questo va benissimo in una società come
la nostra, dove regna l'esperienza vicaria, mediata, impersonale.
Il punto, però, è
che tutta questa arte che circola oggi, alla fine, non è
altro che "arte in più", come diceva Brian
Eno, o arte "ininfluente", come dice Vattimo.
Tanto è vero che non sposta di un millimetro i rapporti
di forza di una società dominata dalla mercificazione,
dalla sopraffazione e dal degrado. L'arte, questa arte,
non riscatta la storia, semmai la inchioda alle sue sconfitte. |
A.: Da che cosa nasce questo agnosticismo della
critica?
A.T.: E' una storia lunga, che attraversa tutto
il Novecento. E' la storia di qualcosa che prima non era
arte e poi, con un semplice gesto di nominazione, di designazione,
lo diventa. Allora il diventare sostituisce il creare. Non
si dice più che una data cosa è arte, ma che
diventa arte. L'arte insomma si trasforma in una qualità
immateriale, un effetto di pensiero, uno spostamento insieme
fisico e concettuale di qualcosa da un piano all'altro dell'esperienza.
E' a questo punto che il lavoro dei critici diventa indispensabile.
Solo che per svolgerlo, essi finiscono col dare per scontato
che ciò di cui parlano sia arte. Smettono di porsi
le domande fondamentali, diventano insomma agnostici.
A.: Il tuo sembra uno sguardo molto severo
sull'arte di oggi.....
A.T. : Il fatto è che l'arte, durante il
Novecento, è come se si fosse progressivamente esiliata
dal mondo ed avesse scelto di sopravvivere in aree protette
- i musei, le gallerie, il "sistema dell'arte"
in generale - ma sostanzialmente avulse e impenetrabili.
Questo è avvenuto perché l'arte ha perso il
suo privilegio storico, quello di elaborare l'immaginario
simbolico-visuale dell'uomo. E' fuor di dubbio, infatti,
che oggi sono i mass-media i detentori del nostro immaginario.
Dunque il problema dell'arte di oggi è la sua autoconservazione
in un mondo saturo di segni e di immagini. Sono severo nel
valutare i modi in cui l'arte di oggi cerca di affrontare
questo problema. Molta arte di oggi mi pare semplicemente
autoreferenziale e autoconservativa. Poi c'è quella
che flirta con la cultura di massa, ma che finisce col ridursi
a pura antropologia visuale.
A.: Insomma, a sentir te ci sarebbe poco da
salvare
A.T.: Ti parrà strano, ma vorrei che si
tornasse ad un'arte più "pubblica", un'arte
che osi pensarsi come costitutiva dello spazio ove l'uomo
vive, al modo in cui lo era l'arte greca, insomma. E' l'idea
dell' "abitare poetico" di Heidegger, in fondo.
Si tratta di ritrovare il senso originario di un'arte che
non si pensa come Arte, nel senso moderno del termine, che
è un senso in qualche modo conflittuale - come nel
Romanticismo, ad esempio - ma in relazione ad un'appartenenza
all'universo della finitudine umana. Penso ad un'arte più
confidente con l'uomo, più presente nella sua vita
quotidiana, più integrata nei luoghi, coestensiva
alla trama delle cose umana. Certo per far questo bisognerebbe
che l'arte perdesse gran parte del suo apparato, del suo
"sistema" così ben incastonato nell'economia
capitalistico-consumistica e questo nessuno lo vuole, né
gli artisti né i critici. Per questo, temo, rimarrò
"anomalo" per molto tempo ancora.
in Artonweb Alessandro Tempi cura la sezione Artreader
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