Il disegno, tecnica leggera, ha avuto nel Novecento una fortuna straordinaria, che coincide solo in parte con quella tradizione di pensiero che gli assegna un ruolo preparatorio, o sussidiario o sperimentale rispetto all’opera d’arte compiuta. (1)
Il valore e la considerazione di cui gode oggi il disegno non sono dovuti tanto alla sua prossimità o contiguità rispetto al “prodotto finale”, quanto alle ricognizioni che su di esso sono state condotte dalla teoresi filosofica nel corso del secolo, che hanno contribuito a convalidare, per vie diverse, l’autonomia del disegno in ogni sua modalità tecnica.(2)
In cosa consiste questa autonomia? Se sfogliamo un qualsiasi catalogo d’arte dedicato al disegno, potremmo dire, che essa consiste in ciò che il disegno esattamente è nella sua essenza, vale a dire la forma linguistica dell’intuizione e della sintesi, il veicolo primario e più diretto della “trasposizione delle immagini fenomenologiche in forme ideali”.(3)
E ciò gli deriva dalle due contestuali caratteristiche che ne sono il fondamento, ma che ne costituiscono anche l’intimo e personalissimo paradosso: il disegno è infatti immediatezza ma anche elaborazione; è, come avrebbe detto Braque, emozione ma anche regola; è rappresentazione ma anche espressione; è insomma lo sgorgare spontaneo del puro segno e, ad un tempo, la ricerca di struttura dell’immagine o del simbolo formale.
Queste opposizioni si riuniscono nello sguardo dell’artista, che nell’immagine, o attraverso un sistema di segni, ci rende una situazione così come essa si da, prima ancora che essa diventi il tema di un approccio, di un’indagine o di una riflessione, prima ancora, insomma, che l’esperienza si scinda fra soggetto e oggetto, fra io e cosa, fra coscienza e realtà.
Nel disegno vi è dunque lo sguardo dell’artista – la sua capacità di visione, insomma - per tramite del quale, come per tramite della madeleine proustiana, si dischiude un mondo di cui egli stesso è parte, vale a dire un mondo in cui la frattura fra il percepire e l’esperire è ancora di là da venire. In questo mondo, in questa immagine egli è situato – che è come dire che ad esso è consegnato od appartiene. Il disegno dunque ci rende l’autotrasparenza dello sguardo dell’artista. E ci dice quanto in realtà perdiamo a considerarlo il mero tracciato di un’intenzione oggettiva (o meramente finalizzata).
La tradizionale limitatezza espressiva di questa tecnica non va considerata come un limite, ma più propriamente come un veicolo di immediatezza e pienezza allo stesso modo in cui sanno esserlo solo alcune forme della danza contemporanea o del jazz.
Il disegno rivela infatti un duplice aspetto di immediata sintesi della percezione nella forma e di meditata elaborazione sintattica di moduli espressivi e si pongono come documento fondamentale per cogliere non solo la personale individualità del singolo artista, ma la coerenza che di volta in volta anima le strutturazioni formali in cui il suo sguardo si incarna.
Che nell’epoca dell’opera-oggetto e dell’opera-operazione, si continui a dipanare nei segni - e coi segni - la metamorfosi formale del vivente non deve meravigliare. Il fatto è che attraverso il disegno viene veicolato un rapporto col mondo che passa attraverso l’esperienza originaria dell’immediatezza dell’immagine, che è costituita non da cose dotate di un determinato e soverchiante carattere semantico o da oggetti singolarmente interpretabili, ma che è consegnata, semmai, ad una situazione o ad un evento. In questo senso, possiamo intendere il disegno come una sorta di evento, o di situazione in cui qualcosa accade.
Questo qualcosa ha solo il segno dell’artista per entrare nel mondo.
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