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Liberare lo sguardo: Joan Mirò
di Alessandro Tempi
pubblicato il 18/05/2015
Una pittura non fine a se stessa, ma strumento di potenziamento dell’immaginazione e di rivelazione e discoprimento energetico di un “mondo vivo”.
Joan Miro', "Il Carnevale di Arlecchino"(1924/25)
olio su tela 54x73.4 cm

Mirò amava dire che ciò che gli era piaciuto di più dei surrealisti era che non consideravano la pittura come un fine in se stessa ed in effetti egli è sempre rimasto fedele a quell’idea sottilmente eversiva di espressione artistica come potenziamento dell’immaginazione, come rivelazione e discoprimento energetico di un “mondo vivo”. Con candore altrettanto eversivo egli del resto dirà, un’epoca più tarda: ”Non escludo la possibilità che, osservando uno dei miei quadri, un uomo d’affari scopra il modo di concludere un affare o un saggio trovi il modo di risolvere un problema”(1).

Tutto il percorso artistico di Joan Mirò allude potentemente a questa possibilità – o capacità creativa, nel senso che essa viene individuata e coltivata “in interiore” – di liberare lo sguardo, per riconquistare, attraverso la visione, quel radicale ed archetipico stato dell’essere che coincide con l’immaginazione ed il sogno. Ed è quello stato, originario e selvaggio al tempo stesso, nel quale egli – epitome – simbolo anonimo dell’uomo universale – si riscopre “essere creatore”.
Se tuttavia l’intensità della visione può dirsi il fulcro dell’esperienza pittorica di Mirò, essa è conseguita, lungo tutto l’arco della sua invidiabilmente lunga carriera, grazie ad un costante e pieno dominio dei propri mezzi espressivi raggiunto attraverso un’ininterrotta opera di depurazione degli elementi formali (colore, segno, modellazione) e tematici (le forti allusioni figurali) che finisce col portare in primo piano, nella sintesi sempre più rarefatta tra segno e colore, i significati scaturiginali, ontici diremmo, del gesto creativo.
E’ proprio per questa via, del resto, che Mirò ha saputo superare gli automatismi di stretta osservanza surrealistica, come pure l’inclinazione alla gestualità irruenta ed istintiva dell’informale, attraversando con singolare libertà interpretativa e quindi con irriducibile originalità i momenti più fecondi dell’astrattismo europeo, ma sempre custodendo, proprio in virtù di una sempre più accorta e consapevole semplificazione espressiva, quella “grazia brutale” che origina ed è il gesto creativo.

Paradossalmente è proprio la ricchezza dell’insieme delle sue opere – dipinti su tela e supporti diversi, disegni, sculture, grafica – a rivelarci come la rarefazione del linguaggio espressivo perseguita per tutta la vita da Mirò non sia riconducibile ad una mera istanza tecnica o ad un affinamento conseguito solo con l’esperienza e l’età. In questo senso si può dire che il processo di semplificazione formale della sua pittura risponde ad un esigenza di trovare in se stesso sempre nuove ragioni per la pittura stessa, di penetrare sempre più a fondo, come dirà Rafael Alberti, nel “segreto della parola dipinta”.
Queste ragioni e questo “segreto” coincidono sempre, in Mirò, con quello che egli stesso una volta definì lo shock dell’inizio: “comincio i miei quadri sotto l’effetto di uno shock che avverto e che mi fa evadere dalla realtà. (…) Ho sempre bisogno di un punto di partenza, anche se solo un granello di polvere odi un lampo di luce”(2). E ancora: “L’inizio è tutto. E’ l’unica cosa che mi interessa. L’inizio è la mia ragione di vivere”(3). Allo stesso modo, Mirò amava del resto citare Picasso, per il quale la pura, vera creazione andava a coincidere col semplice gesto di un graffito sul muro.

Vi è qualcosa di tremendamente autenticamente archetipico in questa idea, qualcosa che ricollega di forza l’atto della pittura con la domanda mitica circa le sue origini e che lo spoglia di ogni sovrastruttura o sovrapposizione intellettualistica per ricondurlo a quella naturalezza tramite cui i significati ontici del gesto creativo si riconnettono senza mediazioni od estetizzazioni all’immaginazione ed al sogno.
“Naturalezza” è del resto la parola – chiave scaturita dall’incontro dell’artista spagnolo con l’estetica Zen della pittura giapponese, sul finire degli anni sessanta. A Mirò non poteva certo esser sfuggito che la semplicità dei pittori e dei calligrafi giapponesi, che si gioca tutta sulla capacità del gesto fulmineo, limpido puro e che proprio per questa sua apparenza può sembrare di getto, senza sforzo alcuno, era in realtà il frutto di una singolare unità fra corpo e mene e di una capacità di penetrazione al di là della percezione razionale.

1) Georges Raillard, Il colore dei miei sogni, 1979.
2) Yvon Taillander, XXe Siècle, Paris,1959.
3) Georges Raillard, op. cit.
link:
Joan Miro', "Il Carnevale di Arlecchino"

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