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Arte e Oblio
di Alessandro Tempi
pubblicato il 27/05/2016

L'arte, affrancata dalla società, dalla religione, dal potere, è diventata un mondo a parte, inarrivabile e, in molti casi, incomprensibile. Ottenendo con ciò l'oblio nel cuore degli uomini.
SOMEONE PUT EYEGLASSES ON A MUSEUM FLOOR,
PEOPLE THOUGHT IT WAS ART

A fronte di una crisi di statuto ontologico che dura da tutto il XX secolo, ma anche di una sostanziale assenza di discussione pubblica sull’arte (1), oggi sono in molti a chiedersi se l'arte sia veramente la cosa che gli artisti fanno (2). Più che ad una cosa, da un certo punto di vista, essa somiglia, semmai, ad una dimensione immateriale alla quale determinate elaborazioni (oggetti, idee, azioni) aspirano od alla quale si elevano una volta che sia loro consentito di varcare certe soglie istituzionali, tramite le quali esse transitano verso una dimensione sistemica. I soggetti istituzionali (o sistemici) di questo processo (i musei, i critici, i collezionisti, le riviste, le strutture di vendita del mercato) controllano l’accesso al sistema-arte, che pare oggi caratterizzato da un principio autotelico che ne anima la stessa capacità di coordinazione ed in cui vige una sorta di convenzione deontologica che consente (o impone) di parlare d’arte senza porsi la questione fondamentale circa la sua esistenza (3). Giacché porre la questione dell’esistenza dell’arte significherebbe porre automaticamente anche la questione dell’esistenza stessa del sistema e dei suoi soggetti componenziali. E questo nessuno lo vuole. Il sistema è in questo senso agnostico: vuole continuare a pensarsi senza tuttavia interrogarsi sulla propria legittimità.

Eppure, nonostante questa poderosa opera di rimozione assiologica, è sempre più difficile, oggi, fugare l’impressione che la maggior parte dei prodotti che circolano nelle arterie del sistema sia solo more art (4), arte in più, ininfluente, speciosa, autoreferenziale. E’ del resto evidente come l'arte di oggi sembri sopravvivere solo in riserve protette (musei, collezioni, gallerie) del tutte avulse dal resto della società.

Platone nella “Repubblica” insegnava che arte e società sono concetti inseparabili, che la società dipende dall’arte, che l’arte funziona come una sorta di legame estetico che rafforza e vivifica l’organismo sociale. Storicamente, dice Herbert Read (5), è impossibile concepire una società senza arte o un’arte senza significato sociale. Almeno fino all’epoca moderna. Perché è proprio a partire da essa che il legame significante fra arte e società che caratterizzava la storia delle civiltà si viene gradualmente ad interrompere. Read fa coincidere questo fenomeno con l’inizio dell’epoca moderna – con la rivoluzione industriale, egli dice – rilevando come esso sia andato accentuandosi nel Novecento con le conseguenze culturali della civiltà industriale: la massificazione della cultura e l’omogeneizzazione sociale.

Del resto, già all’inizio dell’Ottocento Hegel insegnava ai suoi studenti di Heidelberg che l’arte era ormai da considerarsi “una cosa del passato”. Col tempo si è pensato che vi fosse una sostanziale incompatibilità fra la civiltà industriale e la creazione spontanea di opere d’arte (6). Di ciò si è cercato a lungo le ragioni, ma bisogna ammettere che forse la società nella quale viviamo, che porta ai massimi livelli il processo di razionalità tecnologica persino nei suoi aspetti più deteriori e dissipativi, possegga proprie categorie di grandezza che non corrispondono necessariamente a quelle che si sarebbe portati ad attribuire all’arte. Se il banale, il frivolo, il grossolano, il brutale e l’osceno diventano sempre più spesso le categorie che esprimono il gusto della nostra epoca non è solo per effetto di sagaci strategie di sfruttamento industriale (o mediatico) della trivialità o della mediocrità. Ciò accade, si direbbe, proprio perché la banalità è democratica.
Ma forse c’è un’altra cosa che è cambiata, una cosa dalle conseguenze enormemente più gravi : l'immagine artistica non serve più ad elaborare l'immaginario dell’individuo. Per secoli essa ha raccontato storie sacre e profane, è stata l'unico sapere condiviso da individui incolti ed oppressi. Oggi essa sembra aver perso questo potere o forse l'ha solo consegnato, volente o no, ad altre forme di visualità: il cinema, la moda, la pubblicità, il design. E’ questo il nuovo sapere, oggi. Sono questi i nostri narratori di storie, i padroni dispensatori del nostro immaginario. In confronto ad essi, l'arte può ben poco (7). Perché l'arte si è sicuramente affrancata dalla società, non è più l'ancella della religione o del potere, ma da questa liberazione che cosa ha ricevuto in cambio ? Di diventare un mondo a parte, inarrivabile e, in molti casi, incomprensibile. E ciò le ha causato l'oblio nel cuore degli uomini.

1) Cfr. R.Rubinstein, A quiet crisis, in Art in America, n. 265, March 2003; sullo stesso argomento anche B.Eno, A Year. With swollen appendices, Faber and Faber, 1996, pp.258-259.
2) Cfr. B.Gewen, State of the Art, New York Times, Dec. 11, 2005.
3) “Oggi l’arte esiste, ma sembra mancargli una ragione per esistere. (…) Forse è giunto il tempo di abbandonare non l’arte, ma la critica d’arte, giacché essa è diventata poco più che un consiglio per gli acquisti.” H.Rosenberg, in B.Gewen, cit.; più di recente si sta parlando del sistema dell’arte come di un “circuito di definitori” cui spetterebbe il compito di inserire l’opera d’arte nella cornice della significazione, della quale però l’aspetto più consistente continua a rimanere quello economico-negoziale. Cfr. A.Del Lago- S.Giordano, Mercanti di aura, Il Mulino, 2007. Su questo tema le recenti affermazioni dell’artista Pablo Echuarren costituiscono un utile riferimento polemico (Exibart.on paper, n.38, febbr. 2007, pagg. 8 e 107, ma anche  Il suicidio dell’arte. Da Duchamp agli sciampisti, Editori Riuniti, 2001).
(4) L’espressione è di Brian Eno, A Year. With swollen appendices, Faber and Faber, 1996, p.133.
(5) H.Read, Art and Alienation, 1967.

(6) Per tutto l’Ottocento romantico e fino agli anni Trenta del Novecento, sull’onda delle teorie di Spengler, una delle tendenze fondamentali della cultura europea mira a rimettere in discussione in chiave pessimistica - e non di rado catastrofista - l'assetto della  società industriale moderna, disegnandola su uno sfondo di degenerazione e decadenza. Molti intellettuali sentono di doversi assumere il compito e la responsabilità di una critica aperta della civiltà occidentale tout court in cui si agitano tentazioni conservative e classiste almeno quanto sincere preoccupazioni di salvaguardare i valori autenticamente spirituali della cultura, messi a rischio dalla mass civilisation. In tale prospettiva, Mass Civilisation and Minority Culture di F.R. Leavis, pubblicata nel 1930, rimane a tutt’oggi una delle opere più lucide sull’argomento.
(7) Si può far risalire questo al momento in cui ciò che l'uomo ha sempre chiesto all’arte, vale a dire di imitare la natura, gli è stato fornito non più dagli strumenti tradizionali dell’arte - tela, pennello, colori, scalpello - ma da strumenti meccanici di riproduzione dell’immagine - fotografia, cinema - che in fatto di fedeltà naturale sono indubbiamente più perfetti. Da qui l'arte ha perso il suo potere magico, la sua capacità evocatrice, il suo fascino sull’uomo. Da qui l'arte si è ripiegata in se stessa rimanendo sola. Cfr. anche Alberto Boatto, Natura bella ma morta, in L'Indice, luglio 1993, n.7.

 

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