Nella versione formalista datane dal suo più sagace interprete, Clement Greenberg, l’Espressionismo Astratto diventava il punto d’arrivo dell’evoluzione estetica europea iniziata con Manet. Col suo frenetico oscillare fra spontaneismo e intellettualismo, però, l’Espressionismo astratto rimaneva inseparabile dal discorso intellettuale che lo giustificava storicamente. Come rileva Antoine Compagnon (1), il grande successo di questa pittura e il credito di cui essa ancora gode a livello estetico e storiografico sono dovuti, per così dire, a motivi opposti alle sue manifeste intenzioni: al fatto che essa è stata interpretata e spiegata, almeno nel mondo anglosassone sempre alla ricerca di un background storico-culturale, come ultima metamorfosi di un processo di evoluzione espressiva che trova le sue ragioni solo in se stesso.(2) |
Se l’Espressionismo astratto è stato un’arte spontanea elevata dai suoi esegeti ad arte d’elite, la Pop art pare procedere inversamente: si può infatti parlare, in questo caso, di un’arte concettuale che diventa un’arte di massa. L’operazione è in sé radicale: portare lo spettatore ad accettare l’idea non dell’opera che espone da sé il suo statuto artistico, ma che lo riceve dal contesto in cui essa viene presentata, un contesto di mercato o comunque inglobato nel sistema-arte. In questo modo, l’arte si riconduce a ciò che il sistema riconosce e legittima come tale, negandole ogni altra possibilità di esistenza, il che equivale a dire che l’arte deve la sua sola ed unica esistenza – e quindi la propria totale autonomia - alla propria estinzione dal piano dei giudizi di valore.
Il passo compiuto dalla Pop art consiste nell’abolizione della distinzione fra arte d’elite e arte di massa; con essa esiste una sola arte, quella del sistema. Ciò avviene soprattutto grazie ad un utilizzo cinico e spregiudicato del mercato: lo spettatore che si trova di fronte ad opere pop è di fatto costretto a rinunciare all’esperienza tradizionale della ricezione estetica, accettando nel contempo per arte una deliberata e consapevole negazione dell’arte, che coincide con la resa di questa al mercato ed al sistema. L’arte diventa non già qualcosa di cui si porre in questione lo statuto attraverso giudizi di valore, ma ciò che l’artista presenta come tale, che le gallerie espongono, di cui i critici parlano, che i collezionisti si contendono.
La legittimazione per autodesignazione non è tuttavia un’invenzione pop. Risale a molto tempo prima, ai primi del Novecento, quando un artista belga solitario e a suo modo sovversivo era sbarcato in America. Il suo nome era Marcel Duchamp. Qualunque valutazione si voglia dare del suo operato, esso rappresenta non di meno uno dei contributi più profondi alla teoria dell’arte del XX secolo. Più di chiunque altro, Duchamp ha determinato quella transizione dell’artista ad artmaker, sulla quale pesa la consapevolezza malinconica ed ineluttabile dell’evidenza del dominio del mercato, che ha tuttavia radicalmente modificato il ruolo e la percezione sociali dell’artista moderno. Duchamp intuisce infatti quello che sarà il nuovo modello di artista, che non dipende ormai più da un committente che commissiona le opere e le colloca sul mercato; pertanto se il monopolio dell’atto creativo rimane alla piena decisionalità dell’artista, la legittimazione estetica spetta al mercato, che la traduce in valorizzazione economica. Con il ready-made il nominalismo duchampiano raggiunge il suo compimento: il discorso (possibile) sull’arte sostituisce l’opera, la non-arte viene ad identificarsi con l’arte.
Duchamp ha comunque il merito di aver saputo rispettare una sorta di scrupolo estetico e di severa consegna a delimitare il proprio operato al campo nichilistico dell’anartistico. Conscio del fatto che il mercato è l’unica sanzione dell’arte, egli si fa tuttavia scrupolo di evitare la moltiplicazione, e di ricercare perennemente il nuovo, proprio perché il gesto della negazione non può ripetersi, pena la perdita della sua funzione critica: un non-valore non può diventare valore. In questo senso, l’opera di Duchamp può essere letta come impostazione del problema della sopravvivenza dell’arte nella società della mercificazione capitalistica.
Il lavoro della Pop art sembra dunque procedere dalla consapevolezza duchampiana della rottura della continuità fra l’arte del presente e quella del passato: la società che mercifica l’opera d’arte con la riproducibilità tecnica è la stessa in cui si impone il dominio del mercato sull’opera. Ma con la Pop la dissacrazione dell’arte operata da Duchamp giunge ad un esito feticistico: sparita l’opera (col ready-made), essa può consistere solo nell’autorialità pura, vale a dire, in termini di mercato, nella firma dell’artista. L’artista diventa insomma il luogo ed il feticcio dell’opera.
Gli scenari che si aprono dopo la Pop art conducono l’opera d’arte a dipendere da un sistema sempre più coordinato, in cui essa si dà e dal quale oggi pare non poter più prescindere. Il che porta al paradosso descritto efficacemente da Jean Baudrillard, per il quale la logica della produzione dei valori estetici risulta contemporanea al processo inverso, vale a dire alla sparizione dell’arte.
“Più ci sono valori estetici sul mercato” egli afferma “meno c’è possibilità di giudizio (e di piacere) estetico”(3). Così la sparizione dell’arte è segnalata da due sintomi apparentemente opposti: da un lato la proliferazione esponenziale della sua funzionalità sistemica e mediatica, dall’altro l’emergere di un agnosticismo estetico che ci rende incapaci o impossibilitati a svolgere sui prodotti di questa proliferazione un discorso che implichi un giudizio di valore od una qualche analisi ontologica. In un mondo ove il potere pervasivo dei media consente la riproduzione totale dell’esistente e quindi una poderosa e continua opera di agnostica culturalizzazione (giacché quest’opera poderosa finisce con l’esprimere solo un’altrettanto poderosa tautologia del significante (4), anche l’arte accede al proprio grado xerox, quello in cui le immagini “ci permettono di continuare a credere nell’arte eludendo la questione della sua esistenza”.(5)
(1) Tom Wolfe, cit. p.52, ammette tuttavia che il successo commerciale, per gli espressionisti astratti, non fu subitaneo come si potrebbe credere.
(2) A. Compagnon, I cinque paradossi della modernità, Il Mulino, 1993, p.108.
(3) Jean Baudrillard, La sparizione dell’arte, Giancarlo Politi Editore, 1988, p.7.
(4) Baudrillard definisce con questa espressione il macrofenomeno che caratterizza l’attuale società dei media, per il quale “il significante designa se stesso dietro l’alibi del significato”
(5) Cit., p.39.
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