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UNA VOLTA SI DICEVA CHE
A proposito di inaugurazioni e polemiche

di Alessandro Tempi
publicato il 02/11/2016

La disinvolta autoreferenzialità di una classe politica che si sforza di rendere appetibile  l’Italia affamando gli italiani e chiamandoli a (gioiosamente?) confermare quanto altri hanno scelto per loro.

Una volta si diceva che l’arte doveva essere inutile e proprio essendolo poteva rivestire il suo ruolo rivoluzionario.

Adesso che da autorevoli tribune del mondo dell’arte c’è chi si dà pena per cosa, di o intorno a essa,  possano pensare i buyer o gli investor stranieri, pare che l’arte stia per  godere di un nuovo mattino di impensata rilevanza economica e/o magicamente diventare il volano di inopinate opportunità finanziarie.

Solo che l’arte costa. E i costi dell’arte qualcuno li deve pagare. Se ci sono stati tempi di mecenatismi privati peraltro alquanto dubbi - ‘ché a ben vedere le ricchezze che servivano per pagarla spesso non avevano origini cristalline -, adesso (e parlo dal ventennio fascista in poi)  è in voga la tendenza a utilizzare risorse pubbliche per farlo. Niente di nuovo si dirà, giacché l’Italia è stata terra di papi e principi illuminati e lungimiranti.

Solo che - e questo gli autorevoli tribuni dell’arte dovrebbero averlo bene in mente - oggi non sappiamo o meglio non vogliamo più sapere cosa esattamente sia l’arte. E’ circa un secolo che non lo sappiamo o non vogliamo più saperlo, anche se ci accontentiamo di giudizi che spesso hanno avuto e continuano ad avere l’insindacabilità dell’ipse dixit. Così, il mondo contemporaneo dell’arte, che più o meno dagli anni Ottanta si è autoinvestito a sistema per darsi una suprema sanzione socioeconomica (quella stessa che oggi fa dire a qualcuno che l’arte fa bene all’economia di una nazione), dissimula il proprio agnosticismo col pensiero che solo ciò che è sistemico sia (o diventi) arte. E per questo nel mondo dell’arte elevato a sistema c’è uno specifico settore, un vero e proprio indotto il cui compito è pubblicizzare ciò che sistemico è o diventa (quindi scelte già prese da altri).

Ci si angustia per il popolo che rimane escluso da certe inaugurazioni pubbliche e ancor di più se amministratori pubblici eletti dal popolo si mostrino magari incautamente scettici sulla congruità economica di certe scelte mecenatesche. Ma a ben vedere questo popolo, che agli occhi di taluni pare suo malgrado escluso, ha qualcosa di bovino: perché dovrebbe partecipare alla festa se in precedenza non è stato invitato alla decisione?
Questo popolo per cui ci si preoccupa ha forse avuto diritto di esprimersi a suo tempo sulla scelta per la quale oggi si fa festa?
Verrebbe da dire che per taluni forse il ruolo del popolo sia proprio questo: essere bovinamente condotto a  gaudere cum gaudentibus, magari senza avere di che godere veramente.

Ora, l’idea che il popolo - o il pubblico, i cittadini - debba solo (gioiosamente?) confermare quanto altri hanno scelto per loro in campo artistico ha qualcosa di perverso, per almeno un paio di motivi, il primo dei quali è presto detto: esso dissimula il fatto che solo questi “altri” siano in grado di dire cosa arte possa essere o diventare; il popolo può solo venire a far festa dopo.

Chi legge avrà capito che uso il termine popolo in un’accezione un po’ vetero- (il resto lo si metta a piacere) perché per un verso mi sento abbastanza in là con gli anni da esserne giustificato, per un altro ritengo che - comunque lo si voglia dipingere o qualsiasi attribuzione gli si voglia assegnare - chi sta al di qua delle soglie del potere, di qualsiasi potere (e a fortiori anche di quelli sistemici) è sempre “popolo” e merita di essere chiamato col suo nome anziché con termini più trendy ma illusivi.

Il che ci porta al secondo motivo: indubbiamente fa sempre piacere stare dalla parte del potere, giacché vi si spianano carriere e opportunità pressoché illimitate oppure perché, tenendo o meno famiglia, bisogna pur campare. Solo che fa assai meno piacere vedere anche nel mondo contemporaneo dell’arte (o almeno in quello elevato a sistema) quella stessa  fastidiosamente disinvolta autoreferenzialità che affligge la nostra classe politica, che si sforza di rendere appetibile  l’Italia affamando gli italiani.

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