Sono passati giusto trent’anni.
Un duo di infaticabili e perspicui – anche se mai adeguatamente riconosciuti – professori della Facoltà di Architettura di Firenze, spesso in anticipo sui tempi a venire, concepiscono la loro ennesima impresa: un convegno denominato “Cultura/Tecnologia/Metropoli”. Era il 1987, non c’era internet, imperava ancora l’analogico e Nicholas Negroponte era ancora uno sconosciuto. Il convegno, secondo i suoi due ispiratori, doveva servire a capire se la nostra idea di città, nata nella modernità, fosse pronta e quanto lo fosse, in caso, al cambiamento tecnologico che si andava prospettando all’orizzonte.
Per farlo, Egidio Mucci e Pier Luigi Tazzi avevano messo insieme alcune delle voci più significative nel mondo dell’architettura e dell’urbanistica internazionale, ma affinché il dibattito non fosse solo fra cattedratici, concepirono anche tre momenti espositivi: una mostra di giovani designer italiani, un lavoro plastico realizzato in loco dell’artista tedesco Thomas Schutte (nel Chiostro delle Donne) ed un’installazione sonora di Brian Eno dal titolo “In harmonic space” (nel Chiostro degli Uomini), realizzata insieme a Michael Brook.
Erano, per Eno, anni molto “italiani”. Ricorda Rick Poynor: “Gli Italiani avevano accolto calorosamente i suoi lavori”. Ed era vero: fin dal 1984 in Italia si era fatto a gara ad ospitare installazioni e sonorizzazioni di Eno: due volte a Roma, due a Milano, una a Bari e perfino alla Biennale di Venezia del 1986 (1). L’audace installazione montata all’Ospedale degli Innocenti di Firenze, costituita da 24 diffusori che emanavano il suono dal basso, aveva subito trovato un acquirente. “Gli Italiani” raccontava entusiasticamente Eno a Poynor “si emozionano per quelle cose che sono fuori dagli schemi. Noi (gli Inglesi) non compriamo arte come fanno loro”(2). In effetti, proprio in quell’anno la RAI avrebbe sborsato 5000 sterline per la sigla del TG3 di Alessandro Curzi, della durata di venti secondi scarsi, commissionata proprio a Brian Eno (3).
Ma torniamo agli Innocenti. In quel marzo, richiamato dal nome del mio prediletto, visitai la mostra. Non solo la sonorizzazione, di cui si può ascoltare un estratto nel cd The Shutov Assembly del 1992, ma tutta l’operazione era ammaliante per le mie orecchie avide di tutto ciò che suonasse cutting edge. Ma c’erano “le rane”.
Il Chiostro era infatti popolato di enormi oggetti vagamente simili a pistilli che scaturivano dal pavimento, con la parte superiore che pareva un minaccioso occhio o monitor, lì collocate dai solerti architetti di un noto studio fiorentino forse come prototipi delle cabine telefoniche del futuro. Erano appunto “le rane”, dalle quali Eno con un comunicato stampa si dissociava apertamente precisando che non avevano e non dovevano avere niente a che fare con “In harmonic space”.
L’episodio(4) non intaccò l’entusiasmo di Eno per l’Italia: in quella stessa estate ritornò a Roma (con Andrew Logan, all’Orto Botanico) e a Bari (al Crossover Festival) con due nuove installazioni sonore. Ma a Firenze non è più tornato, se non cinque anni dopo e in gran segreto, per il matrimonio di David Bowie.
(1) More dark than shark
(2) Design Observer
(3) Nuovo look al TG3 ma il meglio verrà il prossimo autunno
(4) La presenza delle “rane” fu in qualche modo subìta anche dai curatori del convegno, come mi ha recentemente rivelato il professor Tazzi. |