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Chris Burden o la libertà dell'artista
di Alessandro Tempi
pubblicato il 7/01/2019
L’uso/abuso del proprio corpo a fini artistici entro un preciso lasso di tempo nel quale il pubblico, gli spettatori, compongono un contesto che non li esonera dalle responsabilità etiche rispetto a ciò che vedono o a cui assistono e li autorizza ad infrangere il principio estetico dell’inviolabilità dell’arte.

Per ricordare o anche solo per parlare di Chris Burden (1946-2015), le date sono importanti e non solo perché per un performance artist  quale egli è stato ogni lavoro è comprensibilmente one-off, vale a dire evento unico e irripetibile, ma perché soprattutto nelle sue performance degli anni settanta la componente tempo è fondamentale: è l’arco di durata nel quale si inscrive l’atto deliberato di mettere a repentaglio se stesso, di usare o abusare del proprio corpo per dire qualcosa che con quel corpo non aveva niente a che vedere. Burden, in fin dei conti, era un artista autenticamente concettuale.

Con Burden, insomma, l’arte diventa una cosa viva – il corpo stesso dell’artista – ed una cosa è viva nel tempo, in un preciso lasso di tempo nel quale essa e ciò che le gravita intorno, vale a dire il pubblico, gli spettatori, compongono un contesto. Fuori da quel contesto – c’è paradossalmente motivo di pensare -, Burden non avrebbe mai messo a rischio se stesso (1).

L’uso/abuso del proprio corpo a fini artistici non è un’invenzione di Chris Burden. Verso la fine degli anni Sessanta in America come pure in Europa comincia ad essere usato il termine Body art (2) per definire pratiche artistiche che utilizzano il corpo come mezzo di espressione: quello dell’artista, ma non solo quello, perfino quello dello spettatore che si trova ad essere coinvolto nell’azione dell’artista. In questo senso potremmo dire che la Body art è traumatica, perché va alla ricerca di tutto ciò che di simbolico, inconscio, represso o rimosso è contenuto dentro il corpo. Essa lo fa riemergere grazie al proprio linguaggio – gestuale, comportamentale, espressivo – creando un’esperienza che coinvolge pienamente lo spettatore, che - lo voglia o meno - diventa parte stessa di quell’esperienza.

Se ne possono rintracciare antecedenti significativi in alcune forme d’arte riconducibili alle avanguardie artistiche del Novecento (3) , ma la Body art possiede, a ben vedere, anche qualcosa in più. Potremmo formularlo così: per arrivare a dire ciò che intende dire, per essere credibile insomma, l’artista è disposto a mettere in gioco il proprio corpo, perfino la propria incolumità. Potremmo arrivare a dire che l’artista offra il proprio corpo -  e non solo quello – perché l’esperienza artistica avvenga.

A cosa fa pensare questo offrirsi? Chris Burden concepì e realizzò nel 1975 una performance intitolata Doomed che forse riesce a rendere evidente il senso enigmatico – al limite del contorto – di questo atto di offrirsi. Una sera d’aprile di quell’anno, in una sala del MoCA di Chicago, Burden si stese sotto una lastra di vetro appoggiata ad un muro sul quale aveva installato un orologio e lì rimase immobile, nelle sue intenzioni finché qualcosa o qualcuno non interferisse. Vi rimase per quasi due giorni. Le reazioni del pubblico furono disparate: applausi, fischi, tentativi di approccio, garofani rossi, silenzioso disappunto; una ragazza gettò il suo reggiseno sulla lastra, subito rimosso dai custodi (4). Alla fine, dopo 45 ore, qualcosa o qualcuno venne davvero ad interferire: un dipendente del museo gli avvicinò un contenitore pieno d’acqua. Allora Burden si alzò in piedi da sotto la lastra e con un martello infranse l’orologio posto sopra la parete. La performance era terminata. Per tutto quel tempo era rimasto immobile senza bere né mangiare, urinandosi perfino nei pantaloni. “Fu terribile!” avrebbe poi ammesso (5).

Doomed, osserva Peter Schjedahl, smascherava l’assurdità – o l’ipocrisia, potremmo aggiungere - di quelle convenzioni per le quali, una volta assunto il ruolo di spettatori, crediamo di essere esentati dall’avere responsabilità etiche rispetto a ciò che vediamo o a cui assistiamo. Qualcosa di concettualmente simile era avvenuto a Saigon molti anni prima, nel 1963, quando il monaco buddhista Thích Quàng Ðú'c si era dato fuoco pubblicamente – davanti a molti giornalisti, fotografi e cineoperatori occidentali che lo ripresero - per protestare contro le pesanti discriminazioni nei riguardi del buddhismo da parte del regime di Diem.

In quel caso, si poteva invocare un preciso, e tuttavia non del tutto ineccepibile, diritto/dovere di cronaca. Nel caso di Doomed, ci si poteva invece appellare al principio estetico dell’inviolabilità dell’arte e forse proprio in base a quest’ultimo i custodi del MoCA erano stati istruiti ad allontanare garbatamente chiunque tentasse approcci “personali” alla performance.

Ma quel gesto di portare dell’acqua all’artista, spontaneo o concordato che fosse, una cosa la dimostra: che l’arte non può essere legge a se stessa. Il gesto dell’acqua era dunque l’interferenza che, nel disegno e nelle aspettative dell’artista, poneva fine alla performance proprio perché, come Burden aveva pianificato, veniva finalmente ad intromettersi con essa, con la sua inviolabilità. Sarebbe rimasto immobile sotto la lastra di vetro fino a morirne? Probabilmente no, disse in seguito l’artista, anche se lo aveva realmente temuto giacché niente di ragionevolmente interferente era accaduto per quasi due giorni. Poi, inaspettato o meno, era intervenuto il gesto dell’acqua.
La scelta di considerare quello e non altro come the end of the story diceva che anche la libertà dell’artista, teorizzata dalla personale ricerca di Burden  e da lui condotta agli estremi nel modo in cui era stato solito fare in quegli anni (6), aveva dunque un limite. Non ne avrebbe mai più ripetuta un’altra che mettesse a rischio la propria vita.

(1) Ne dà testimonianza Peter Schjeldahl in Performance: Chris Burden and the limits of art, New Yorker, May 14, 2007.
(2) Il termine comunque, almeno a livello teorico-critico, sarà perlopiù riferito ad una sottocategoria della Performance art o dell’arte concettuale ed è in questo senso che qui lo si riconduce ai lavori di Chris Burden degli anni Settanta.
(3) Segnatamente all’avanguardia dadaista (anni Venti); al concetto di “teatro della crudeltà” di Artaud (anni Trenta); agli happenings del gruppo Fluxus (anni Cinquanta); alle “Antropometrie” di Yves Klein come pure agli esordi dell’Azionismo Viennese (anni Sessanta).
(4) Lo racconta Roger Ebert in Chris Burden: "My God, Are They Going To Leave Me Here To Die?", Chicago Sun-Times, May 25, 1975.
(5)Peter Schjeldahl, cit.
(6) Nelle performance dei primi anni Settanta, Burden si era chiuso in una armadietto metallico per cinque giorni, fatto sparare ad un braccio, aveva strisciato seminudo e con le mani legate sull’asfalto disseminato di cocci di vetro, si era fatto crocifiggere al tettino di una Volkswagen, ma una, particolarmente bizzarra anche se non meno pericolosa, merita di essere ricordata: sulla trafficatissima La Cienega Boulevard di Los Angeles l’artista si era sdraiato sull’asfalto sotto un telo; accanto aveva due torce da segnalazione che si esaurivano in 15 minuti. Ma prima che le torce si spegnessero, la polizia lo arrestò per procurato allarme. Processato, venne prosciolto dal giudice poiché la giuria non riuscì ad esprimere un verdetto (sul caso vedi Barbara T. Smith, Burden Case Tried, Dismissed, in Artweek, v.4, February 24, 1973, p.2).


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