Messaggiare (texting in inglese) è sicuramente una delle attività più frequenti di ogni individuo con un telefono cellulare in mano. Chi messaggia sa che, qualunque sia la sua velocità di digitazione, la composizione ortografica delle parole viene facilitata da un software che elabora i cosiddetti suggerimenti predittivi, che propongono e completano per noi la parola nell’ortografia corretta. Inizialmente, prima degli smart- e degli i-, quando si digitava sulla tastiera numerica detta 3x4, c’era il T9, una specie di dizionario integrato che associava alla pressione dei tasti numerici della tastiera le possibili parole.
La totalità degli smartphone e degli iphone oggi in commercio è dotata di una tastiera predittiva che, come il T9 dei vecchi cellulari, aiuta l'utente a digitare messaggi correggendone refusi, errori di ortografia e fornendo suggerimenti sulle parole che si stanno inserendo. Le tastiere predittive hanno infatti la capacità di prevedere le parole che si sta per utilizzare. In base a quale magia? Nessuna. Alla base delle tastiere predittive ci sono meccanismi algoritmici che creano un dizionario locale all'interno di ogni dispositivo mobile, formato dalle parole, dalle frasi che si utilizzano più di frequente e dai “neologismi” non presenti nei “dizionari ufficiali”. Tutti i lemmi di questo piccolo dizionario vengono catalogati e valutati in base alla frequenza di utilizzo: maggiore il valore assegnato ai vari lemmi, maggiore la probabilità che la parola in questione sia proposta dalla tastiera predittiva come suggerimento.
Il concetto che sta dietro la tastiera predittiva è ovviamente la prevedibilità, che non è una mera ipotesi congetturale, ma una realtà. Le tastiere predittive sono lì a dimostrarci che ciò che comunichiamo, banale o importante che sia, è prevedibile. E le parole che usiamo qualcuno le ha già scelte per noi. Sembra una facilitazione, qualcosa che si qualifica come user-friendly, insomma. Ma non lo è. Perché la prevedibilità è il concetto fondamentale che governa oggi il nostro mondo.
I pagamenti che eseguiamo con il bancomat dicono cosa possiamo permetterci e cosa ci piace, il gps sullo smartphone registra tutti i nostri spostamenti, l'algoritmo di Facebook impara i nostri gusti in fatto di cinema e musica, moda e cibo, fino a sapere che cosa abbiamo intenzione di votare alle prossime elezioni. Tutti questi dati che seminiamo sono il punto di partenza, il pozzo da cui attingere per simulare e anticipare il futuro. Ci vengono proposte compilation musicali, libri, cd, dvd e qualsiasi altro prodotto smerciabile sulla base di rilevamenti statistici dei gusti del pubblico classificati e organizzati per generi. E siamo noi stessi utenti a collaborare senza accorgercene, non solo accettando i cookies, ma anche e soprattutto fornendo il nostro gradimento o meno alle pubblicità che compaiono sui social, indicando addirittura quali vorremmo vedere. Dicendo a una mi piace e a un’altra non mi piace lavoriamo gratis per un’immensa operazione planetaria di ricerca di mercato attraverso la quale i gusti del pubblico influenzano il prodotto prima ancora che esso arrivi sul mercato: non sono più le vendite a esprimere il gradimento, ma le opinioni preventivamente espresse, organizzate e catalogate attraverso i cookies, di coloro che prima ancora di essere acquirenti o consumatori, sono utenti e/o navigatori del web. Siamo così surrettiziamente coinvolti che, paradossalmente, anche togliendo una pubblicità dallo schermo con un semplice click sulla x forniamo, senza saperlo, un’informazione di mercato.
I segreti più profondi della Cia e dell'Nsa potranno essere violati e resi pubblici, ma state certi che da nessuna parte, nemmeno nel dark web, rintraccerete l'algoritmo di ricerca di Google o quello dei feed di Facebook o Instagram. Perché oggi questi algoritmi determinano, prevedendolo, l'andamento della vita umana sul nostro pianeta. E non lo fanno per fermare l’effetto serra o lo scioglimento dei poli, ma - se va bene - per vendere più sneakers o più cheeseburger. Ma può andare anche peggio. |