All’inizio del terzo millennio, l’arte contemporanea sembrava andare più forte che mai o così almeno pareva negli Stati Uniti. Col suo consueto sarcasmo, l’eminente Peter Plagens la descriveva così: “Chiunque abbia una Range Rover in garage, un armadio pieno di abiti Armani e possa capire la differenza tra Medoc e Merlot sta comprando arte contemporanea.”(1)
Ma nello stesso articolo, Plagens citava un altrettanto eminente critico, Michael Brenson, che già alla metà degli anni Novanta, in una conferenza tenuta alla Warhol Foundation di New York, si era espresso così: “Credo che la critica d'arte stia fallendo miseramente nell'affrontare le sfide di questo tempo e che l'arte e gli artisti, e in effetti la cultura artistica di questo paese, ne soffrano. L'arte, gli artisti e le istituzioni artistiche americane stanno lottando, e poiché così pochi critici sono stati disposti a partecipare a questa lotta ed esaminare il loro ruolo nel suo sviluppo e risultato, la critica d'arte, nel suo complesso, è nei guai.”(2)
Per la verità, nel suo discorso Brenson era arrivato a porsi domande estreme ed esplicite, che investivano la natura e il senso dell’operare dei critici d’arte e quindi della loro accountability ovvero la responsabilità intellettuale di essi nei riguardi dei lettori e quindi dell’opinione pubblica. “In che modo – si chiedeva - posso continuare a rendere giustizia ai problemi che plasmano l'arte del mio tempo? (…) Che effetto avrà la mia mancanza di attenzione e di coraggio sull’atteggiamento verso l'arte e gli artisti, la critica e i critici in questo paese? E quale effetto avrà quella mancanza di attenzione e di coraggio sulla vitalità dell'istituzione per cui lavoro?”
Erano parole di candida onestà che forse per la prima volta ponevano l’attenzione su quello stato di “obbedienza incrollabile” cui coloro che scrivono d’arte contemporanea mostrano sempre più di allinearsi nel rendere conto al proprio pubblico di opere o operazioni artistiche che, come diceva Brenson, “potrebbero essere inadeguate, se non anacronistiche.”
Il problema, detto in due parole, era chiarissimo: la cosiddetta critica, quella dei giornali, delle riviste specializzate e non, era diventata semplicemente descrittiva, aveva insomma perduto il suo smalto autenticamente “critico”, che risiede nella valutazione e nel giudizio.
Poi è venuto James Elkins e in un smilzo libretto di 87 pagine dal titolo sintomatico "What Happened to Art Criticism?”(3) ha detto la sua. La critica d'arte, scriveva Elkins, una volta era appassionata, polemica e critica; ma adesso i critici sono più spesso interessati all'ambiguità, alla neutralità e alla descrizione sfumata. E pure se la critica d'arte è onnipresente su tutti i media - giornali, riviste alla moda e cataloghi di mostre, ma anche televisione e internet, aggiungeremmo noi -, in essa è perlopiù assente ciò che è o dovrebbe essere la sua mission, vale a dire il porre domande, alimentare il dibattito e non prendere atto o, al peggio, allinearsi o celebrare.
Elkins aveva passato al setaccio una serie infinita di periodici e cataloghi di mostre, ma il risultato era sempre lo stesso: gli interventi critici erano sempre più sfuggenti e sempre meno alla portata dei lettori. La critica, diceva, "sta morendo, ma è ovunque…”; i critici esprimono sempre più spesso opinioni o pensieri transitori, ma rifuggono l’impegno forte di mettere in discussione o tentare di comprendere criticamente ciò di cui parlano.
Nel denunciare la rinuncia al giudizio o alla “messa in crisi” del proprio oggetto, Brenson, Plagens e Elkins riecheggiavano probabilmente l’allarme per quel fenomeno che Jean Baudrillard aveva definito alla fine degli anni Ottanta come “agnosticismo estetico” (4) e che investiva frontalmente la critica dell’arte contemporanea: tale agnosticismo, diceva il francese, ci permette di parlare dell’arte senza peraltro interrogarci sulla sua autenticità di prodotto intellettuale, sulla possibilità insomma che essa esista davvero, a prescindere dal convenzionalismo che anima tutto il sistema stesso nel quale è così entusiasticamente incastonata.
Oggi che gli interventi e le prese di posizione contro il famigerato Art System fioccano (5) e che perfino scrittori di grido come Vargas Llosa e Vila Matas paiono prendere posizione rispetto al “bluff del contemporaneo”, verrebbe da dire: Il re è nudo. E lo sapevamo tutti.
BIBLIOGRAFIA
1) Peter Plagens, Contemporary art, uncovered: a survey of major newspapers and weekly magazines suggests that visual art is steadily losing ground in the popular press, even as its audience -and market-grows exponentially, in Art in America, Febr. 2007.
2) Michael Brenson, Resisting the Dangerous Journey: The Crisis in Journalistic Criticism, The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Paper Series on the Arts, Culture, and Society, Paper Number 4, 1995; ripubblicato in Maurice Berger (ed.), The Crisis of Criticism, New York, The New Press, 1998.
3) James Elkins, What Happened to Art Criticism?, Prickly Paradigm Press, Chicago, 2004.
4) Jean Baudrillard, La sparizione dell’arte, Politi, Milano, 1988.
5) Cfr. Sarah Thornton, Seven Days in the Art World, Granta Books, 2009; Angelo Crespi, Ars Attack, Johan & Levi, Milano, 2014; David Balzer, Curatori d'assalto. L'irrefrenabile impulso alla curatela nel mondo dell'arte e in tutto il resto, Johan & Levi, 2016; Simona Maggiorelli, Attacco all'arte. La bellezza negata, L’Asino D’Oro, 2017.
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