Comincio subito con l’ammettere che non ho un atteggiamento equanime verso la pubblicità. La trovo anzi detestabile e condivido il giudizio che su di essa è attribuito a H.G. Wells e cioè che essa è menzogna legalizzata. Ma non è di questo che voglio parlare.
Né del resto voglio parlare del fastidio che essa mi arreca mentre sto guardando un film o qualsiasi altro programma televisivo o allorché si aprono decine di banner sul mio computer quando navigo su internet. Il fastidio che essa provoca in realtà è molto più antico e i teatri mediatici in cui essa oggi compare sono soltanto amplificazioni della sua essenza più profonda, che è tutt’altro che innocua.
La pubblicità, ormai lo sanno anche i bambini, è la più grande macinatrice di figure retoriche: le utilizza praticamente tutte al punto che è ad essa che dobbiamo guardare, dopo il fatale tramonto della retorica, come ideale continuatrice dell’arte della persuasione. In politica il γnνος συμβουλευτικoν è stata triturato fino a ridurlo ai tweet, mentre quello επιδεικτικoν serve ormai solo per vendere saponette, deodoranti e crociere. La pubblicità insomma serve, come diceva Henry Ford, per vendere ovvero per indurre a comprare.
In realtà, essa fa molto di più. Essa non si limita a guidarmi docilmente nella giungla delle occasioni del mercato. La pubblicità oggi ama pensare a se stessa come imprescindibile forma di comunicazione fra le aziende e i consumatori, insomma come il tertium fra le prime e i secondi. Un tertium che risponde a un imperativo che contraddistingue l’economia moderna, vale a dire l’allargamento dei consumi. Così, quando uno spot interrompe il film che sto vedendo in tv, dovrei pensare che quello è il modo in cui le aziende produttrici di merendine, analgesici o preservativi entrano in comunicazione con me per farsi conoscere e apprezzare. Forse dovrei perfino ringraziare che ci sia quel momento, perché si configura come un’utile fonte di informazione per orientare le mie scelte in fatto di acquisti. Bello, no?
Come dire che, nella società dei consumi, senza di essa al consumo mancherebbe qualcosa. Infatti, se per un capriccio del destino la pubblicità improvvisamente sparisse, noi ne sentiremmo la mancanza. E non tanto sotto il profilo della mera informazione sulle merci, perché basterebbe andare in un supermercato e accertarsi di persona quali e quanti prodotti vi siano a disposizione. Ne saremmo delusi, invece e paradossalmente, sotto un altro e ben diverso profilo, quello dell’immaginazione, perché – seguendo Baudrillard - ciò che essa ci dà attraverso gli spot è la possibilità stessa di sognare: noi ormai sogniamo solo ciò che essa ci fa sognare (1). La pubblicità ci pone tutti nella condizione di sottrarci alla pesante responsabilità di immaginare e di rappresentarci il mondo (2).
Può sembrare esagerato. Tuttavia, da una ricerca condotta in più fasi durante lo scorso anno – quindi in piena pandemia – si apprende che il 56% degli intervistati affermava di divertirsi guardando la pubblicità. Un dato senz’altro più significativo, comunque, era che i telespettatori si attendevano che la pubblicità, in quella precisa condizione (pandemia) dovesse essere incentrata principalmente sull’intrattenere, con toni simpatici e leggeri (3): “le persone si aspettano che la pubblicità continui a raccontare storie, specie se ambientate in una sorta di dimensione da sogno e di “mondo ideale” che ha sempre caratterizzato la pubblicità". (4)
La nostalgia dell’ideale, insomma. Del resto si sa che esiste il marketing della nostalgia (5)…
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