La 55° edizione del World Press Photo (WPP) il più importante premio fotogiornalistico al mondo, organizzato dal 1955 dalla fondazione olandese World Press Photo si è conclusa con la scelta all’unanimità della foto vincitrice ed ora le foto del concorso verranno esposte in una grande mostra che si inaugurerà ad Amsterdam, nell'Oude Kerk, il 20 aprile 2012, per divenire poi una mostra itinerante che toccherà 45 paesi e 105 città diverse in tutto il mondo.
L’edizione italiana si terrà a Roma dal 27 aprile al 16 maggio nel Museo di Roma in Trastevere, per passare a Milano dal 3 maggio al 6 giugno, ospitata dalla Galleria Carla Sozzani, proseguendo poi in altre città. In contemporanea con la mostra uscirà un libro che raccoglie le foto premiate, con testo tradotto in italiano.
‘Press Photo of the Year’, così viene designata ogni anno la foto che “non solo è la sintesi fotogiornalistica dell’anno, ma raffigura un evento o una situazione di grande rilievo giornalistico raccontandoli in un modo che dimostra sensibilità visiva e creatività”, come si legge nel sito della fondazione.
La giuria internazionale che cambia ogni anno e che per l’edizione del 2011 era presieduta da Aidan Sullivan e composta da 15 giurati, ha designato miglior fotografo del 2011 lo spagnolo Samuel Aranda del New York Times con una foto di reportage scattata il 15 ottobre 2011 nello Yemen, in una moschea trasformata in ospedale da campo nella capitale Sanaa sconvolta dalle manifestazioni popolari contro il presidente Ali Abdullah Saleh.
“L’immagine illustra il coraggio di questa gente che osa scendere per strada per protestare contro il regime e mette a rischio tutto. Si tratta di una foto profondamente iconica, in cui è preponderante l’elemento della sofferenza umana e allo stesso tempo della compassione”, questa la motivazione del premio nelle parole di Aidan Sullivan.
Luogo e data, diceva Cartier-Bresson, né commenti né didascalie sulle foto, l’immagine parla (o per lo meno dovrebbe parlare) da sé.
Né motivazioni, aggiungerei, è irrilevante che la tragedia avvenga in Yemen o in Cina, che la gente protesti contro un regime o un altro, ciò che conta, e ben lo rileva Sullivan, è la natura “profondamente iconica” della foto in quanto medium che non ha altro mezzo per raccontare che l’immagine.
Ed infatti l’immagine di Samuel Aranda racconta, con elegante anonimità ed estetizzante freddezza, una “sofferenza umana” ed una “compassione” senza tempo e senza luogo, non evitando, tuttavia, di indurci a pensare che con lo stesso risultato un bravo fotografo avrebbe potuto realizzare quello scatto nel chiuso di uno studio in una qualunque parte del mondo.
Nella penombra di quella stanza, lo sfondo stranamente immacolato, un uomo forse malato (manca ogni apparente segno di ferite), con un tatuaggio bene in vista, una donna avvolta nel niquab che indossa abbaglianti guanti bianchi, non giunge l’eco della tragedia che si consuma all’esterno, la sofferenza è congelata nell’eleganza della composizione che bandisce ogni dettaglio macabro, niente sangue, niente bende, niente ferite sul corpo nudo e pulito di un ribelle reduce da cruenti scontri di piazza, niente emozione e disperazione sui volti volutamente celati dei due protagonisti.
L’immagine, fortemente simbolica e vagamente impersonale, appare decontestualizzata rispetto alle circostanze entro le quali viene collocata, il che potrebbe essere una scelta, se non collidesse con la valenza “fotogiornalistica” che motiva l’attribuzione del premio e con le intenzioni della fondazione che la vorrebbero legata ad un "evento" e ad "una situazione di grande rilievo giornalistico", nella fattispecie un evento di guerra del quale l'inviato del New York Times è stato testimone e cronista in tempo reale.
Infatti, tutto si può dire di questa foto tranne che appaia come documento emblematico di un estemporaneo qui-e-ora fermato dal fotografo in una situazione di emergenza come può essere una sommossa popolare.
Grande assente, l'evento che la foto vorrebbe celebrare.
Elegante esercizio di stile, densa di citazioni, abilmente ed artificiosamente costruita, chiaramente posata con più di una concessione alla valenza estetica della scena, forse sottoposta ad abili fotoritocchi, questa immagine è la rilettura intellettualistica di una ‘pietà’ michelangiolesca rieditata in chiave moderna, una ‘deposizione’ classicheggiante, pedissequa e stucchevole, dove il corpo che, nell’abbandono della morte, si affida all’abbraccio compassionevole di un altro essere umano replica freddamente canoni compositivi predefiniti (persino la composizione piramidale leonardesca!)
Urge una seria riflessione sul senso della fotografia, ma soprattutto dei premi che pretenderebbero di formare l'opinione su di essa.
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