“……Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo”, scrive Pessoa, la magia della fotografia sta nel fatto che basta esercitare lo sguardo e, come ci insegna la filosofia, problematizzare l’ovvio, per trovare lo speciale nel banale, l’immagine è autopoietica, si crea negli occhi di chi guarda, infiniti occhi ed infinite letture, e tutte sono giuste.
La storia delle immagini ci ha abituati a vederne l’evoluzione verso una sempre più fedele mimesi della realtà, la pittura figurativa ha sempre incorporato nel suo linguaggio espressivo i progressi tecnologici (la pittura tonale dell’olio dei fiamminghi, le regole della prospettiva del rinascimento, la camera oscura di Caravaggio ecc.) ma la pittura subisce un irreparabile trauma alla nascita della fotografia, che riproduce la realtà meglio di chiunque e di sempre. Non a caso, l’arte visiva si inventa l’astrattismo, l’informale, il concettuale, perché l’iconografia, il racconto, la mimesi sono morti per sempre.
L’avvento della fotografia a colori registra una inversione di tendenza, anziché venire accolta come l’innovazione che permette una maggior adesione alla realtà colorata del mondo che ci circonda, sembra rappresentare una forzatura, una aggettivazione inutile e gratuita, come se il b/n avesse già saturato l’immaginario collettivo in tutti i modi possibili, come se, per la prima volta, evoluzione tecnologica ed evoluzione del linguaggio espressivo non si muovessero in parallelo e il colore fosse una opportunità accessoria, non indispensabile, a volte disturbante.
Paradossalmente siamo più propensi a ritenere artificiosa e manipolata una foto a colori (troppo spettacolare, troppo irreale, troppo falsata) piuttosto che una in b/n, che tuttavia sappiamo già nascere come falsa rappresentazione acromatica di una realtà policroma.
Il b/n semplifica, in un certo senso, la lettura dell’immagine, poiché la gamma dei parametri di riferimento è ridotta rispetto a quelli della scala cromatica, che per questo lascia meno spazio all’elaborazione soggettiva, il b/n è un inganno dei sensi che accettiamo senza metterlo in discussione, ci piace essere ingannati perché solo così possiamo entrare in una dimensione inaccessibile alla ragione (quella del sogno).
L’introduzione trae spunto da un avvenimento reale: l’8 novembre 2011 è stata battuta all'asta da Christie's la gigantesca fotografia di Andreas Gursky "Rhein II" aggiudicata per la cifra di 4.338.500 dollari, diventata quindi la foto più costosa della storia. L’immagine, stampata nel 1999 , è una monumentale fotografia del fiume Reno che misura 190 per 360 cm, la seconda fotografia di un set di sei immagini.
Va detto che Dusseldorf è la città che tra il 1976 e il 1997 ha rappresentato un polo di eccellenza della produzione fotografica non solo tedesca e un centro di formazione professionale e artistica di altissimo livello anche grazie alla docenza di Hilla e Bernd Becher.
Da allora Gursky si dedica al grande formato e si converte alla fotografia a colori, immortalando preferibilmente soggetti di grandi dimensioni. Nello specifico la foto riproduce una veduta del Reno pesantemente ritoccata dove sono stati digitalmente cancellati tutti gli elementi del contesto, la visione del fiume così ottenuta è più adatta di quella vista in loco per rappresentare quel corso d’acqua.
L’intenzione del fotografo non è tanto quella di produrre una fotografia credibile, anzi Gursky non se ne preoccupa minimamente, nella consapevolezza che un’immagine è sempre una parte (non credibile) di un tutto che non si può rappresentare e quindi mente sempre, ma Gursky non vuole ‘mentire’ ricorrendo ad un sotterfugio digitale, anzi vuole che chi guarda la foto si renda conto che l’elaborazione rende meglio della visione diretta l’idea di un fiume ‘moderno’ (questo era il tema del suo servizio fotografico).
La rappresentazione deve essere credibile, non la foto la quale non ha alcun obbligo col reale, il fotoritocco serve non per mentire, ma per supportare una precisa scelta poetica perché la visione del fiume così rappresentato è effettivamente più significativa della visione dal vero e piu consona a rappresentare un corso d’acqua particolarmente presente nell'immaginario collettivo del popolo tedesco quale il Reno.
Gli artisti della Scuola di Dusseldorf seguiranno percorsi autonomi con personali approcci concettuali sviluppando un proprio peculiare linguaggio iconografico.
Varrebbe anche la pena di considerare il background culturale di Gursky e le sue relazioni con la pittura di Anselm Kiefer e con i miti tedeschi del fiume Reno e della selva germanica, nonchè l'apparteneza alla "Scuola di Düsseldorf ", forse il movimento più significativo della fotografia contemporanea, con chiari richiami alla Bauhaus della Repubblica di Weimar che inaugurò quindici anni di grande fervore intellettuale in una sostanziale libertà di espressione in cui nacquero i principali movimenti artistici tedeschi.
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