Ernst Gombrich, nel suo ‘The story of art’, il libro da più di cinquant’anni più autorevole per ciò che riguarda la storia dell’arte scrive:“Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti: uomini che un tempo con terra colorata tracciavano alla meglio le forme del bisonte sulla parete di una caverna e oggi comprano i colori e disegnano gli affissi pubblicitari per le stazioni della metropolitana, e nel corso dei secoli fecero parecchie altre cose. Non c’è alcun male a definire arte tutte codeste attività, purché si tenga presente che questa parola può significare cose assai diverse a seconda del tempo e del luogo, e ci si renda conto che non esiste l’Arte con la A maiuscola che è oggi diventata ridicola e spaventosa.”
Il concetto è coraggiosamente eversivo, sia nel suo tempo storico che oggi, ed in un certo senso stabilisce che ogni discorso ha il senso che ci trova chi lo riceve e non chi lo produce, questa è la legge della comunicazione.
La fotografia non esiste senza di noi, e noi non esistiamo come fotografi se non fotografiamo ‘qualcosa’, la fotografia deve sottostare alla tirannia dell’oggetto, non è il mezzo, non è l’intenzione, non è la tecnica ciò che la rende reale, è l’oggetto che essa riproduce, è ciò che, in qualunque modo e secondo qualunque scelta, resterà impresso sulla pellicola.
Se è vero che senza di noi la fotografia non esisterebbe, è vero anche che "…..è l’oggetto a vederci, è l’oggetto a sognarci. Il mondo ci riflette, il mondo ci pensa. La magia della fotografia sta nel fatto che tutta l’opera la fa l’oggetto" scrive Jean Baudrillard, l’oggetto è la traccia, gli oggetti “fanno sistema” fino a sostituire il mondo reale scomparso dalle nostre vite e a decretarne la morte (Jean Baudrillard, "Cyberfilosofia", 2010).
Infatti il Baudrillard fotografo predilige fotografare oggetti inanimati: "Tutti sorridono di fronte alla fotografia ma l'oggetto rifugge da questa logica e non sorride. è per questo che io adoro gli oggetti [……] per trovare la reale qualità dell'immagine, secondo me, bisogna cercarla soltanto nell'oggetto. È nell'oggetto che sono riuscito a trovare la singolarità, nella scena dell'oggetto..... ".
Solo la fotografia ha il potere di recuperare il rapporto con la realtà oggettuale attraverso la sua rappresentazione, la fine della realtà diviene essa stessa la realtà.
Fondamentale il fatto che la fotografia si debba “guardare” e se la fotografia è un linguaggio (come l’architettura, la musica ecc.) vuol dire che parla e quindi che qualcuno ascolterà ed interpreterà, poiché i codici del linguaggio sono nati per comunicare e ogni artista inevitabilmente racconta sé stesso anche attraverso la asserita negazione di ogni pretesa, di ogni riflessione sul mondo, di ogni ambizione esibizionista.
Tutto ciò che è visivo esiste per essere guardato, non esiste indipendentemente, lo sguardo crea ciò che vede a seconda di come il suo cervello è stato ‘educato’ a guardare, e può accadere che, in un determinato tempo e in un preciso luogo, si attivi un ‘vedere artistico’ che solo alcuni possiedono e che li rende capaci di passare dalla percezione all’espressione visiva esprimendo una concezione della realtà mediata dalla vista.
Non a caso Ludwig Wittgenstein sostiene la necessità di imparare a ‘vedere’, ad utilizzare quella che lui chiama “arte dello sguardo” così come si impara a leggere e paragona la figura dell’architetto a quella del filosofo, mentre Apollinaire sintetizza il concetto e dice: “L’artista non vede, guarda.” intendendo il vedere come facoltà oggettiva dell’uomo, atto fisiologico che non dipende dalla volontà, mentre guardare è facoltà soggettiva e richiede volontà e partecipazione emotiva.
Si parla di fotografia come pratica sociale quando essa diventa generatrice di identità collettiva ed assume un forte significato simbolico, il termine ‘politica’, parola greca con radici etimologiche in ‘polis’ (città), riguarda proprio questo passaggio, la politica compare nella misura in cui l’attività artistica si colloca in un ambito necessariamente pubblico, collettivo e sociale (appena esce dallo studio dell’artista), entrando nella polis, per questo la storia sociale di un popolo è fondamentale per capirne la storia dell'arte.
Ed è questo il motivo per cui la parola ‘arte’, come dice Gombrich, “può significare cose assai diverse a seconda del tempo e del luogo”, legata com’è al momento storico, sociale, culturale, economico, ai molteplici contesti in cui nasce e dai quali deriva il proprio senso, un senso ‘etico’ del quale spesso gli artisti sono inconsapevoli, quasi non si rendessero conto che l’arte, nella fattispecie visiva, nella fattispecie la fotografia, esiste perché c’è chi preme il bottone, ma anche perché c’è chi guarda il risultato.
Non è necessario avere o non avere un’idea sociale, la scelta non la fa chi scatta la foto, ma chi la guarda, l’attribuzione di significato sociale, che riguarda quindi la struttura e l’organizzazione della collettività, spetta a chi riceve il messaggio e non (solo) all’intenzione del fotografo, il quale può legittimamente non avere “un’idea sociale” così come può non averne un architetto che progetta un grattacielo per il suo committente ed incidentalmente e senza intenzione alcuna può cambiare lo skyline di un’intera città.
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