"Qual è il più famoso strumento di valutazione
psicologica? Probabilmente il test di Rorschach, all'incrocio
tra le strade del mito, della scienza e dell'arte. Le sue figure
inquietanti affascinano": così scrive Roberto Casati
dello psichiatra svizzero Hermann Rorschach (1884-1922), appassionato
di pittura, inventore di un test diagnostico detto "Test
delle macchie di inchiostro" (1921), in cui vengono sottoposte
all'osservatore figure indefinite e simmetriche ottenute dalla
piegatura di un foglio di carta su cui è stata deposta
una certa quantità di inchiostro: sono 10 le tavole oggi
utilizzate per l'analisi, sulla base delle quali si richiede
al soggetto una interpretazione del significato delle figure
casualmente derivate da quest'operazione.
Il test di Rorschach è un test proiettivo, basato cioè
sul meccanismo psicologico della proiezione, lattribuzione
ad altri di sentimenti, paure, desideri e qualità proprie,
mediante un processo inconscio (anche in questo caso dobbiamo
a Freud un primato, l'utilizzo con questo significato del termine
"proiezione" nel 1896).
E' il test forse più utilizzato in psicodiagnostica proiettiva,
in grado di fornire informazioni sugli aspetti complessi della
personalità e del suo funzionamento, sia in senso clinico
che dinamico che relazionale, sulla base del principio che vede
le abilità creative di un individuo inserirsi nella dinamica
della personalità.
Non sono tuttavia mancate, specie
in passato, le critiche sulla sua attendibilità, ma anche una
succesiva riabilitazione nel 1974 ad opera dello psicologo statunitense
John Exner.
Pur essendo il Rorschach prevalentemente non una teoria della
personalità ma uno strumento diagnostico, dall'analisi
e dalla valutazione delle risposte, secondo schemi interpretativi
complicati e precisi e secondo criteri oggi scientificamente
riconosciuti, lo psicologo ricava informazioni sulla personalità
dell'esaminato, sul suo tipo di intelligenza, sulle sue problematiche
interiori e sulla presenza o meno di eventuali complessi, devianze,
anomalie.
Ho introdotto l'argomento, anche se non è strettamente
attinente all'arte moderna, perché la strada che Rorschach
traccia per legare l'immagine alla psiche è analoga
a quella che percorre l'arte visiva, che parte dalla funzione
percettiva e giunge all'individuazione delle caratteristiche
psichiche del soggetto, nel caso dell'arte duplice, essendo rappresentato
sia dal fruitore che dall'autore dell'opera (come ci ha insegnato
Freud): il livello evolutivo ed i meccanismi inconsci individuali,
caratterizzati da un ampio margine di variabilità, dipendenti
dalle caratteristiche psico-fisiche, dall'esperienza personale
e dal vissuto individuale, dal patrimonio culturale e mnemonico
di ognuno di noi, diverso per ognuno di noi, inducono un aggiustamento
della percezione su parametri soggettivi, addivenendo ad una
lettura soggettiva della visione artistica.
Anche Rorschach, si potrebbe dire con una semplificazione
certamente eccessiva, ma imposta dai limiti del mio argomento
specifico, guarda delle macchie e vede l'inconscio, proprio
come fanno l'Astrattismo o l'Informale, o come fa il Surrealismo,
che aspira ad indagare il mondo metafisico, e così
molti altri movimenti moderni e contemporanei, con una tensione
a "guardare oltre" che rappresenta il mezzo per
conquistare la libertà dal controllo della ragione,
dalla tirannia dell'iconicità, dal condizionamento
del reale.
Vale la pena di ricordare anche
il movimento italiano dei Macchiaioli che, quantomeno sul piano tecnico, fu anticipatore sino dalla metà dell'ottocento, della pittura 'a macchia' che si proponeva di evidenziare i valori chiaroscurali del dipinto grazie alla contrapposizione di macchie cromatiche scure e chiare.
Leonardo esorta i suoi allievi a lasciar vagare lo sguardo
sulle macchie di umidità delle pareti prima di dare
inizio ad un'opera, Goya e Rembrandt esprimono tensioni nascoste
in misteriose macchie cromatiche fine a sè stesse,
Kandinskij realizza il primo acquarello astratto come un dinamico
insieme di macchie colorate di predominanza blu e rossa, Jean
Dubuffet elogia le "macchie casuali" che "evitano
il dominio dell'oggetto", Maurice Denis riconosce nelle
macchie di colore su una tela il primo elemento del dipingere
con un suo valore autonomo, molti sono i casi in cui la macchia
diventa sintomo di importanti significati non esplicitabili,
elementi indistinti in cui qualunque osservatore potrebbe
proiettare liberamente i propri contenuti mentali, proprio
come accade con le macchie di Rorschach.
Il neurobiologo Semir Zeki, fondatore della neuroestetica,
che porta avanti interessantissime ricerche sulla visione
e sui suoi aspetti neurofisiologici, indaga il rapporto tra
funzione visiva del cervello ed arte in un suo libro "La
visione dall´interno" del 1999, dove proprio l'arte
astratta è messa in relazione con la neurobiologia
nella comune ricerca di elementi essenziali di un processo
cognitivo primario, all'interno del quale il tema del non-finito stimola l'osservatore a ritrovare i significati taciuti dall'artista
affidandosi alle capacità deduttiva del proprio cervello,
con un processo sovrapponibile a quello proposto da Rorschach
con le sue macchie di inchiostro.
Ancora una volta si può osservare come scienza ed arte,
procedimento scientifico ed esperienza estetica, non siano
due poli così distanti come il nostro pensiero occidentale
cartesiano ci ha portato a credere e come attività
emozionale, intellettuale, logica, percettiva o creativa si
fondano in un unico processo psico-cognitivo nell'uomo, nella
sua esseità complessa ed unitaria.
* articolo aggiornato il 10/01/2017
link:
Greenberg e l'oggettività dell'esperienza estetica
Vedere per credere?
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