Con l'arrivo delle prime piogge e l'aria fresca dell'autunno,
si sa, anche la città dell'arte si risveglia. Dopo
l'intenso periodo pre-estivo, in cui i viaggiatori dell'arte
si sono affaccendati in giro per l'Europa per non perdere
nessuno degli appuntamenti del grand tour, e la pausa estiva
sonnacchiosa in cui il popolo delle mostre si è dedicato
all'abbronzatura e a scolpire i glutei (d'altronde al giorno
d'oggi neanche gli "intellettuali" possono più
permettersi di essere fuori forma!), gli acculturati
- permettetemi di rubare un termine così azzeccato
a un Tom Wolfe all'apice dell'irriverenza - sono finalmente
pronti a reimmergersi nel favoloso mondo delle inaugurazioni,
dei cocktails e dei dibattiti sul chi, il cosa e il come (attenzione
a non sbagliarvi MAI a chiedere il perché) farà
tendenza in arte durante l'anno prossimo venturo.
A Roma la prima settimana ottobrina si è aperta con
il vernissage di una delle gallerie più gettonate,
di quelle che meglio richiamano le monde (ancora grazie
Tom), LORCAN O'NEILL, strategicamente collocata tra
il carcere di Regina Coeli e l'istituto di igiene mentale
La mostra presentata è quella di un artista russo,
Matvey Levenstein, che vive da tempo a New York e che
nel 2003 ha soggiornato a Roma presso l'American Academy,
cogliendo l'occasione per farsi un giro tra le meraviglie
nascoste nelle numerose chiese che si trovano in città
per poi riprodurre particolari degli interni e degli altari
con una pittura minuziosa e dettagliata, infine velata da
una sorta di nebbia che offusca il perfezionismo della trasposizione
iperrealista.Tra i motivi anche deliziose nature morte
floreali e scene di intimità domestica, riprese con
la medesima tecnica. Un'arte rilassante, a suo modo spirituale
e sicuramente fuori dal sensazionalismo tanto di moda di recente.
Una folla nutrita di persone, accorsa al richiamo del "dovere",
si è accalcata nelle sale dello spazio romano, volgendo
rapidi sguardi alle opere e ben più attente occhiate
destinate a riconoscere "chi è con chi" e
prodigandosi tra saluti e mini sorsi, sempre ricordandosi
di snobbare quel tanto che basta per ricordare ai comuni mortali
(il pubblico di quegli sfigati che vanno a vedere le opere
e non le persone) che l'arte è per pochi.
Così è. Così deve essere. Dicono.
Se fin qui abbiamo scherzato (partecipare a questi eventi
è infatti un gioco da ragazzi: è sufficiente
controllare con devota attenzione una delle tante bibbie on
line degli appuntamenti artistici della serata
), ora
possiamo passare alle cose serie: la stessa settimana, dopo
anni di estenuante attesa, finalmente ha riaperto il PALAZZO
DELLE ESPOSIZIONI (ora so come dovevano sentirsi i faraoni
quando era pronta una delle loro piramidi-tombe
).
Non vi dico la fatica per trovare l'invito all'evento della
stagione (ovviamente non scenderò nei dettagli ed eviterò
di elencare il numero di favori promessi per assicurarmi un
posto tra gli eletti), ma voglio sottolineare l'impatto traumatico
quando, emozionato e pieno di speranze, sono arrivato davanti
al monumentale ingresso e, sorpresa, una fiumana di gente
stava in fila accalcata e sbraitante sulle scale, in attesa
di entrare.
Ma non era una roba esclusiva? Non eravamo noi "eletti"
un piccolo circolo ristretto? Superato lo shock e accantonato
il primo impulso - darmi alla fuga - accetto il triste destino
e, dopo aver atteso un buon quarto d'ora in fila e aver sopportato
una cinquantina di gomitate da vecchiette arzille e scalpitanti,
le porte del paradiso, infine, si spalancano.
E Palazzo delle Esposizioni fu
La gente è tanta, gli spazi grandi e imponenti, dall'alto
la vista è spettacolare ("sembra un museo vero",
esordisce con innocente stupore chi con me). Anche qui ci
si perde in saluti più o meno di cortesia, ci si studia
con discrezione e via dicendo. Mancano però i mini
sorsi (o almeno io non li ho visti), l'atmosfera è
più "ufficiale" e l'età media dei
partecipanti decisamente più alta.
Al primo piano la mostra allestita è una retrospettiva
di Mark Rothko (all'origine Marcus Rothkowitz, anche
lui russo trasferito in America) curata da Oliver Wick.
Le sensazioni difficilmente assumono contorni ben definiti.
Rothko fece parte di un gruppo di artisti e critici che in
America negli anni '30 teorizzò la creazione di un
rapporto tra l'artista e il pubblico basato sul trasferimento
di profonde sensazioni tra l'uno e l'altro. Questo scambio
lo si avverte pienamente passeggiando tra le salette, quasi
delle cappelle, in cui sono esposti i suoi dipinti. Sebbene
l'arte visiva contemporanea, come d'altronde quasi tutte le
espressioni artistiche degne di nota, abbiano bisogno di un
bagaglio conoscitivo a priori per esser meglio comprese (e
forse apprezzate), le opere di questo artista vibrano immediatamente
e riflettono i moti più profondi del suo spirito. Le
fasce colorate nella loro perfetta imperfezione sono un dialogo
continuo e aperto tra le diverse sensibilità dell'artista
e dell'osservatore, catturato nel percorso dei suoi stati
d'animo. Dai rossi sgargianti ai beige riposanti per giungere
ai neri cupi - e perfettamente coincidenti con la cornice
- che rappresentano il termine di un colloquio conclusosi
con il suicidio dell'artista.
Due esempi, Levenstein e Rothko, diversi e simili allo stesso
tempo. Entrambi russi d'origine, ma statunitensi di fatto;
entrambi, anche se in modo e con tenori ben diversi, offrono
con il proprio lavoro una ragione possibile per continuare
a andar per mostre e per rendere sopportabili certi stupidotti
da vernice che si guardano e annusano tra loro come i componenti
della Society di Yuzna, certi che la cosa debba fungere così.
Le emozioni e sensazioni scaturite dalle opere viste si intrecciano,
loro malgrado, con i rituali sociali del popolo dell'arte
e dell'industria culturale e, nonostante passino talora in
sordina rispetto a questi clamori, sono la migliore risposta
alla domanda che tante volte ci si pone: "Perché
andare ancora in cerca d'arte?".
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