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Una settimana da sballo
di Stefano Elena
pubblicato il 22/10/2007
Certa arte, certo suo pubblico e quel poco che sta in mezzo

Matvey Levenstein, Rainbow, 2007
Olio su lino, 178 x 119 cm
Courtesy Galleria Lorcan O'Neill, Roma

Matvey Levenstein, Cathedral, 2007
Olio su lino, 21 x 28 cm
Courtesy Galleria Lorcan O'Neill, Roma

Matvey Levenstein, Sunset, 2007
Olio su tavola, 22 x 27 cm
Courtesy Galleria Lorcan O'Neill, Roma

Con l'arrivo delle prime piogge e l'aria fresca dell'autunno, si sa, anche la città dell'arte si risveglia. Dopo l'intenso periodo pre-estivo, in cui i viaggiatori dell'arte si sono affaccendati in giro per l'Europa per non perdere nessuno degli appuntamenti del grand tour, e la pausa estiva sonnacchiosa in cui il popolo delle mostre si è dedicato all'abbronzatura e a scolpire i glutei (d'altronde al giorno d'oggi neanche gli "intellettuali" possono più permettersi di essere fuori forma!), gli acculturati - permettetemi di rubare un termine così azzeccato a un Tom Wolfe all'apice dell'irriverenza - sono finalmente pronti a reimmergersi nel favoloso mondo delle inaugurazioni, dei cocktails e dei dibattiti sul chi, il cosa e il come (attenzione a non sbagliarvi MAI a chiedere il perché) farà tendenza in arte durante l'anno prossimo venturo.
A Roma la prima settimana ottobrina si è aperta con il vernissage di una delle gallerie più gettonate, di quelle che meglio richiamano le monde (ancora grazie Tom), LORCAN O'NEILL, strategicamente collocata tra il carcere di Regina Coeli e l'istituto di igiene mentale…
La mostra presentata è quella di un artista russo, Matvey Levenstein, che vive da tempo a New York e che nel 2003 ha soggiornato a Roma presso l'American Academy, cogliendo l'occasione per farsi un giro tra le meraviglie nascoste nelle numerose chiese che si trovano in città per poi riprodurre particolari degli interni e degli altari con una pittura minuziosa e dettagliata, infine velata da una sorta di nebbia che offusca il perfezionismo della trasposizione iperrealista.Tra i motivi anche deliziose nature morte floreali e scene di intimità domestica, riprese con la medesima tecnica. Un'arte rilassante, a suo modo spirituale e sicuramente fuori dal sensazionalismo tanto di moda di recente.
Una folla nutrita di persone, accorsa al richiamo del "dovere", si è accalcata nelle sale dello spazio romano, volgendo rapidi sguardi alle opere e ben più attente occhiate destinate a riconoscere "chi è con chi" e prodigandosi tra saluti e mini sorsi, sempre ricordandosi di snobbare quel tanto che basta per ricordare ai comuni mortali (il pubblico di quegli sfigati che vanno a vedere le opere e non le persone) che l'arte è per pochi.
Così è. Così deve essere. Dicono.
Se fin qui abbiamo scherzato (partecipare a questi eventi è infatti un gioco da ragazzi: è sufficiente controllare con devota attenzione una delle tante bibbie on line degli appuntamenti artistici della serata…), ora possiamo passare alle cose serie: la stessa settimana, dopo anni di estenuante attesa, finalmente ha riaperto il PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI (ora so come dovevano sentirsi i faraoni quando era pronta una delle loro piramidi-tombe…).
Non vi dico la fatica per trovare l'invito all'evento della stagione (ovviamente non scenderò nei dettagli ed eviterò di elencare il numero di favori promessi per assicurarmi un posto tra gli eletti), ma voglio sottolineare l'impatto traumatico quando, emozionato e pieno di speranze, sono arrivato davanti al monumentale ingresso e, sorpresa, una fiumana di gente stava in fila accalcata e sbraitante sulle scale, in attesa di entrare.
Ma non era una roba esclusiva? Non eravamo noi "eletti" un piccolo circolo ristretto? Superato lo shock e accantonato il primo impulso - darmi alla fuga - accetto il triste destino e, dopo aver atteso un buon quarto d'ora in fila e aver sopportato una cinquantina di gomitate da vecchiette arzille e scalpitanti, le porte del paradiso, infine, si spalancano.
E Palazzo delle Esposizioni fu…
La gente è tanta, gli spazi grandi e imponenti, dall'alto la vista è spettacolare ("sembra un museo vero", esordisce con innocente stupore chi con me). Anche qui ci si perde in saluti più o meno di cortesia, ci si studia con discrezione e via dicendo. Mancano però i mini sorsi (o almeno io non li ho visti), l'atmosfera è più "ufficiale" e l'età media dei partecipanti decisamente più alta.
Al primo piano la mostra allestita è una retrospettiva di Mark Rothko (all'origine Marcus Rothkowitz, anche lui russo trasferito in America) curata da Oliver Wick.
Le sensazioni difficilmente assumono contorni ben definiti.
Rothko fece parte di un gruppo di artisti e critici che in America negli anni '30 teorizzò la creazione di un rapporto tra l'artista e il pubblico basato sul trasferimento di profonde sensazioni tra l'uno e l'altro. Questo scambio lo si avverte pienamente passeggiando tra le salette, quasi delle cappelle, in cui sono esposti i suoi dipinti. Sebbene l'arte visiva contemporanea, come d'altronde quasi tutte le espressioni artistiche degne di nota, abbiano bisogno di un bagaglio conoscitivo a priori per esser meglio comprese (e forse apprezzate), le opere di questo artista vibrano immediatamente e riflettono i moti più profondi del suo spirito. Le fasce colorate nella loro perfetta imperfezione sono un dialogo continuo e aperto tra le diverse sensibilità dell'artista e dell'osservatore, catturato nel percorso dei suoi stati d'animo. Dai rossi sgargianti ai beige riposanti per giungere ai neri cupi - e perfettamente coincidenti con la cornice - che rappresentano il termine di un colloquio conclusosi con il suicidio dell'artista.

Due esempi, Levenstein e Rothko, diversi e simili allo stesso tempo. Entrambi russi d'origine, ma statunitensi di fatto; entrambi, anche se in modo e con tenori ben diversi, offrono con il proprio lavoro una ragione possibile per continuare a andar per mostre e per rendere sopportabili certi stupidotti da vernice che si guardano e annusano tra loro come i componenti della Society di Yuzna, certi che la cosa debba fungere così.
Le emozioni e sensazioni scaturite dalle opere viste si intrecciano, loro malgrado, con i rituali sociali del popolo dell'arte e dell'industria culturale e, nonostante passino talora in sordina rispetto a questi clamori, sono la migliore risposta alla domanda che tante volte ci si pone: "Perché andare ancora in cerca d'arte?".


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