E' ad ogni edizione di Art Basel che si capisce sempre di più perché i suoi visitatori chiedano a potenziali simili se ci vadano anche loro, a Basilea, quest'anno. Senza specificare altro.
Come certamente accadrà per chi interno al mercato dei diamanti, della gastronomia, del fitness e di tanto altro, la città-fiera Basilea è solo quel posto lì, quello dove devi esserci, se seriamente coinvolto nel tuo ambito professionale, (quasi) qualunque esso sia. Una non città “benfatta” che varia il proprio tema di continuo, senza sosta, per l'intero anno, come fosse il desktop di un pc, capace di coniugare angoli incantevoli quanto una scenografia fiabesca alla sfrenatezza milionaria della borsa e delle sue azioni.
Per noi ingredienti d'arte, nonostante le passeggiate furtive sul lungofiume deserto e le intrusioni fuori luogo nei monasteri vuoti, Basel è Art Basel.
Perché è lì che ti è dato modo di impadronirti in un sol colpo (e quello al cuore è pertinente, quando si tenta di prender parte all'infinità di proposte che in una sola settimana ti si para innanzi) dell'attualità – seppur in larga parte di quella più adatta ad esser venduta e quindi comprata – dell'arte multipla, in questa sede concentrata più di una spremuta di frutti di stagione.
Lì, grazie all'esigenza dell'acquisto e per colpa sua, puoi inzupparti nelle piene dell'arte, impregnarti delle sue variopinte sudorazioni sino a sapere di lei, a volte persino dopo la ristoratrice vasca serale (sempre che allo stadtkino non si proietti “Women Without Men” della Neshat). Succede così, tra la fiera madre, Scope, Liste, Art Unlimited, le Conversations e Art Parcours, di gironzolare tra i lavori dai nomi celebri e tra quelli di più recente anagrafe, da Wilhelm Sasnal e Berlinde de Bruyckere a Marck, con videosculture “infilate” tra le forme del reale, e Katja Loher, che associa video e oggetti per una doppia valenza di entrambi, da Paul McCarthy e Damien Hirst a Joep van Liefland, edificatore di un videopalace abitabile al cui interno videocassette, telecomandi e accessori inerenti riempiono ogni spazio, e Carine Linge, poetica ritrattista di momenti autobiografici.
Intorno all’organo pulsante principale – fuori dall’alternarsi ammassato di ogni pensabile vedere, di stand incontinenti pieni come i brufoli lasciati al proprio corso, di accompagnatrici in tiro che stanno sempre dietro a uomini di corsa – compaiono alcove ben meno colme, dove poter guardare avendo anche il tempo di pensare.
C’è la personale di Gabriel Orozco, la collettiva “Roboterträume” al Museum Tinguely, con un Jon Kessler in ottima forma e l’indimenticabile macchina per scrivere firmata Laurent Mignonneau & Christa Sommerer che scrive ragni.
Non ho ancora certezze su quale sia la forma migliore per vedere l’arte, e magari non ne esiste alcuna come forse sono tutte adatte. Questo è il portentoso dilemma: come riesce l’arte a mettersi in mostra sotto così tante e diverse spoglie? Come modella le sue puttane sembianze adattandosi ovunque? E poi, come si può continuare a fidarsi di lei, tanto mutevole da ricordare quella città svizzera che si chiama Basilea? |