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Johan Otto Von Spreckelsen
di Vilma Torselli
pubblicato il 30/05/2007
la "La Grande Arche de la Fraternité", cubo perfetto, gigantesco monolite, capolavoro del moderato razionalismo danese

Il quartiere parigino della Défense, una specie di Manhattan europea arroccata ad ovest della città sopra lo snodo ferroviario più importante d'Europa, è stato voluto da François Mitterand nell’ambito di una grandiosa operazione urbanistica che ha trasformato e riqualificato vaste zone di territorio come solo la Francia, che coltiva con tenacia il mito della sua grandeur, sa fare.

Credo che la Francia sia la nazione europea che meno di tutte teme “l’effetto monumento”, intrisa com’è la sua cultura di una forte componente celebrativa che trasforma ogni intervento in un’occasione esibizionista, in simbolo, in memoria da tramandare alla storia dell’umanità tutta.
"La Grande Arche de la Fraternitè", del danese Johan Otto Von Spreckelsen (1929-1987), scomparso due anni dopo l'ultimazione del cantiere, viene inaugurata nel 1989 in occasione della celebrazione, neanche a dirlo!, del bicentenario della Rivoluzione francese: assieme alla piramide di cristallo del Louvre di Ieoh Ming Peï ed alla celebre torre dell’ingegner Eiffel, La Grande Arche è il più audace monumento che la Francia abbia eretto a sé stessa. Acme della più spettacolare scenografia urbanistica dell’occidente, coraggioso e superbo omaggio ad un assetto urbanistico tra i più sontuosi d’Europa retto sull’infilata monumentale Louvre-Concorde-Place de l'étoile, che con questo nuovo ampliamento viene allungato di quattro chilometri, la Grande Arche rappresenta un confronto diretto tra passato e futuro, tra quella che si potrebbe chiamare l’inutilità di una struttura che ha come solo scopo la vacua esibizione di sé, l’Arc de Triomph, e la funzionalità di un edificio che può ospitare 2000 persone su 87.000 metriquadri di superficie utile.

Concepita come un enorme cubo pressoché perfetto rivestito di candido marmo di Carrara di 110 metri di lato, svuotato nel centro, la Grande Arche ha l’aspetto enigmatico e sacrale di un simbolo iniziatico, un gigantesco monolite che pare uscito da un film di Stanley Kubrick, una porta magica, uno stargate che getta un ponte verso l’eternità.

"La caratteristica più interessante del cubo è proprio il suo essere relativamente poco interessante. Paragonato a una qualunque altra forma tridimensionale, il cubo manca di aggressività, non implica movimento ed è il meno emotivo. E' dunque la forma migliore da usare come unica base per ogni funzione più complessa, l'espediente grammaticale da cui far procedere il lavoro. Poiché è standardizzato e universalmente riconosciuto, non richiede alcuna intenzionalità da parte dell'osservatore; è immediatamente chiaro che il cubo rappresenta il cubo, una figura geometrica che è incontestabilmente se stessa. L'uso del cubo evita la necessità di inventare un'altra forma prestandosi esso stesso a nuove invenzioni" : sono parole di Sol Lewitt che illuminano il processo creativo all’origine dell'opera, d’arte o di architettura che sia, per il quale l’idea dell’opera costituisce di fatto la sua stessa identità, poiché la Grande Arche è, infatti, prima di tutto un cubo.

Per farlo ci voleva il coraggio di un danese, figlio di una civiltà che per eccellenza parla un linguaggio semplice, funzionalista, sobrio e rigoroso, che riesce a progettare un edificio al tempo stesso simbolico ma non retorico, grandioso ma non ridondante, moderno ed arcaico insieme. Portato all’estremo il moderato razionalismo danese che pone sullo stesso piano la destinazione, la progettazione e la realizzazione dell’architettura, più che mai lontana la lezione dell’architettura organica in un linguaggio di olimpico autocontrollo, von Spreckelsen realizza un’opera in un certo senso anomala che è tutto ciò che un’architettura moderna non deve essere, sintesi di tutti i no contro i quali ha teorizzato Bruno Zevi, indifferente sia ai codici tradizionali che a quelli modernisti, verso la quale la critica ufficiale, forse per questo, non è prodiga né di commenti né di apprezzamenti: scatola chiusa e isolata, simmetrica, monumentalista, di severo geometrismo, superbamente prevalente sul paesaggio, nella quale la funzione terziaria è saldamente bloccata in uno schema rigido ripetitivo e modulare .
L'impostazione umanistica dell’educazione culturale di von Spreckelsen è al di sopra di ogni sospetto, come tutti gli architetti danesi egli pone l’uomo a misura dell’architettura, le sue chiese, come quella di San Nicola a Hvidovre o di Stavnsholt a Farum, sono esempi cristallini di purezza formale ineguagliata, in cui la matrice artigianale si legge nell’attenzione quasi sensoriale per i materiali, nell’elevato standard esecutivo, nella cura minuta dei particolari, elementi che von Spreckelsen riesce a trasferire in un progetto su scala decisamente disumana.

Architettura di grande valenza scultorea in un volume di essenzialità zen, frutto di un’inflessibile semplificazione e riduzione formale all’insegna del “less is more” di Mies van der Rohe, estrema sintesi formale che in qualche modo, seppure azzardato, rimanda a Costantin Brancusi, per il quale la semplicità non è riduzione ma “complessità risolta”, o a certe utopiche opere concettuali di Sol LeWitt ("Curved Wall", “Cinderblock”, “Irregular tower” ecc..), la Grande Arche di von Spreckelsen, minimalista ma tutt’altro che poverista, non mira ad ottenere il massimo risultato con il minimo dei mezzi, ma ad ottenere il massimo da una selezione rigorosa tra il meglio possibile, sia per ciò che riguarda la tecnologia che i materiali che le tecniche costruttive, ricercando il risultato finale proprio in un’essenzialità che non si può porre in discussione perché talmente perfetta da non ammettere varianti.

Costruito su una scala dimensionale anonima ed universale che non cerca confronti gerarchici né aspira a rapportarsi alla figura umana o alla realtà circostante, ma anzi a rifuggire da ogni riferimento percettivo e da ogni classificazione tipologica, mostrandosi in una totalità immediata l’edificio afferma la sua spartana semplicità come imprescindibile categoria dello spirito, frutto di un progetto perfetto come la forma geometrica in cui è inscritto, algido nel nitore di linee impeccabilmente rette ed ortogonali, di superfici piane, senza esitazioni né concessioni divagatorie.

Ciò che stupisce, tuttavia, con la rarefatta eleganza della struttura, la sua siderale atemporalità, è, nonostante tutto, la presenza dell’uomo, è come von Spreckelsen, pur rifuggendo ogni possibile autocelebrazione narcisistica, riesca ad esserci ed a siglare con la sua orma terrena un territorio di dimensione non umana. Come?

Così come accade all'asse della Cour Carrée del Louvre e alla Place de la Concorde a causa della presenza di infrastrutture sotterranee, il progetto prevede un lieve disassamento di soli 6°33' del nuovo impianto rispetto al tracciato dei Champs Élysées, introducendo così una impercettibile imperfezione che “umanizza” con un tocco di leggera ironia un disegno urbanistico giocato sul simbolismo evocativo di una trionfale infilata prospettica. Dopo di che inserisce nel vuoto centrale due elementi estranei, in netto contrasto con la monumentalità dell’insieme: un blocco ascensori aereo e trasparente alloggiato in un traliccio metallico ed un piccolo padiglione, "Les nuages", con copertura irregolare in fibra di vetro sorretta da un’esile tensostruttura in fili d’acciao, opera di Paul Andrei, a cui si deve l’ultimazione dell’edificio.
Leggi "C'è nuvola e nuvola...."

Elementi destabilizzanti, irregolari, leggeri, aperti, indefiniti all’interno di una massa precisa e bloccata, paiono l’uno una provvisoria struttura da cantiere in tubi Innocenti e l’altra un bianco telo teso casualmente e mosso dal vento, una nota di improvvisazione e quasi di incompiutezza, metafora della provvisorietà che accompagna la vita dell’uomo, anche quando erige un monumento per l’eternità.


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