E' partita a New York la più grande ricostruzione dell'ultimo
secolo che non sia stata imposta da cause belliche o da sismi
naturali, quella dell'area tragicamente nota come Ground
Zero, nel cuore della metropoli simbolo dell'occidente
ricco, tecnologico e moderno.
L'Agenzia Governativa incaricata della gestione del concorso
per il progetto del nuovo WTC ha operato una scelta fondata
non solo su criteri di eccellenza progettuale, ma basata anche
sul consenso allargato di varie realtà sociali, addetti
ai lavori, gente comune, comitati di parenti delle vittime,
per giungere ad una condivisione plebiscitaria come si conviene
ad una situazione che ha colpito e coinvolto le coscienze
di tutti gli strati della società civile.
Tra i progetti presentati ha avuto la meglio quello proposto
da Daniel Libeskind, grazie al quale lo spazio di Ground Zero ospiterà tra breve un grandioso complesso architettonico
dominato in altezza da una guglia alta 1.776 piedi, numero
che ricorda l'anno dell'Indipendenza americana, e da due grattacieli
"tagliati" come due cristalli alla sommità.
Il tutto raccoglie la sfida del complesso delle Petronas Towers
in Malaysia, attualmente gli edifici più alti del mondo,
superandoli di un centinaio di metri.
Libeskind, che è un professionista della celebrazione,
uno specialista della memoria, progettista del Museo ebraico
di Berlino, del Museo ebraico di San Francisco, del Museo
della guerra a Manchester, prevede per il nuovo WTC anche
un Memorial Garden di circa 1,6 ettari e la conservazione
a vista di ciò che è rimasto delle fondazioni
delle Twin Towers. Per un sol giorno all'anno, ogni 11 settembre,
un fascio di luce inonderà la piazza dalle 8.46 alle
10.28, intervallo di tempo in cui si è consumata la
tragedia.
Sarà questa la testimonianza fisica di un avvenimento
unico per eccezionalità e tragicità, profondamente
sentito da una collettività ancora emotivamente traumatizzata,
il ricordo del quale deve essere tramandato alle future generazioni
di americani.
Il ricordo è certamente un bene prezioso che l'uomo
traduce solitamente in simboli celebrativi legati ad una forte
carica emotiva, come un monumento, un memoriale, un mausoleo,
un museo: il termine stesso, "ricordo", che deriva
etimologicamente dal latino cor-cordis, porta con sé
la valenza emozionale legata ad un accadimento di determinante
importanza psicologica, che, in qualche modo, colpisce "al
cuore".
Forse sarebbe preferibile un altro termine, "memoria",
che è "funzione generale della mente, consistente
nel far rinascere l'esperienza passata, che attraversa le
quattro fasi di memorizzazione, ritenzione, richiamo, riconoscimento"
(Nicola Zingarelli, "Vocabolario della lingua italiana").
C'è, tra i due termini, una differenza sostanziale,
tanto che definirei il ricordo un atto passivo, innescato
dalla vista del monumento, del mausoleo, del museo, e la memoria
una funzione attiva, che permette, con atto della mente razionale
ed emotivo insieme, di ricostruire ricordi interiorizzati
e divenuti parte del patrimonio mentale.
Nelle città italiane, la memoria è rappresentata
dai centri storici, cristallizzazione del passato dei luoghi,
dove, per ricordare, non c'è bisogno di monumenti,
basta camminare sulle antiche pietre di una qualunque città
italiana, dove sedimentazioni di secoli di storia vivono accanto
a noi, in continuo divenire assieme allo scorrere delle nostre
vicende umane.
New York è la città, nel mondo, che più
demolisce, ricostruisce, amplia e rinnova il suo patrimonio
edilizio ed urbanistico, il passato non ha tempo di solidificare,
ciò che si evolve è un continuo presente che
rincorre il futuro, lo spazio vuoto di Ground Zero
è un'anomalia accidentale, alienante ed estraniante,
è un baratro, nel quale è precipitato un po'
dell'orgoglio americano.
Ma questa immane distruzione potrebbe rappresentare l'occasione, unica
ed irripetibile, per innescare un processo progettuale di
urbanizzazione d'emergenza che non sia semplice sostituzione, una sovrapposizione
di spazio su spazio, luogo su luogo, funzione su funzione, ma occasione per inventare
una reinterpretazione
non solo spaziale di un'area divenuta, più di qualunque altra, fortemente simbolica.
Un'occasione imperdibile, perché "La storia
futura non produrrà più rovine. Non ne ha il
tempo" (Marc Augé, "Le temps en ruines,"),
perché è il tempo che trasforma le macerie in
rovine e costruisce la coscienza della storia.
E le macerie escludono le rovine: le prime frutto della storia
recente, le seconde residuo di un passato storico, hanno un
rapporto antitetico con il tempo, le prime lo azzerano, le
seconde lo testimoniano. Per questo un mondo senza rovine
è un mondo senza storia.
Se l'occasione è stata colta lo sapremo quando la svettante
guglia di Libeskind dominerà lo skyline di una
città dove il verticalismo non è solo una scelta
strutturale ma un modo di concepire la vita, un assetto sociale,
politico, economico, dove tuttavia si impone la necessità
di una ricostruzione non solo fisica che parta dal ground
zero delle coscienze, da una catabasi nella parte oscura
di una cultura che si è rivelata fragile e vuota di
significati interiori e che deve scoprire in sé stessa
come arrivare ad una rifondazione dei valori su cui si sorregge.
Perché per la prima volta a New York, le macerie, quelle
del WTC, non sono il risultato di una delle tante operazioni
di demolizione-ricostruzione, sono la tabula rasa,
la prima stratificazione di un passato del quale bisogna cominciare
a costruire la memoria, perché credo che abbia ragione
chi ha detto che un popolo, se non sa da dove viene, non sa
nemmeno dove sta andando.
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