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Antonio Gaudì
di Vilma Torselli
pubblicato il 30/05/2007
*

Un genio dell'impossibile alla ricerca di un mondo perfetto in cui non è il reale ad essere rappresentato dal simbolo, ma, al contrario, è il simbolo l'unica realtà possibile.

Considerando l'opera di Antoni Gaudí i Cornet (1852-1926), catalano come Dalì, Mirò, Tapies, Picasso, Ribera, Casas, Rusinol, non si può fare a meno di pensare che esista un DNA culturale, trasmesso dai luoghi d'origine ad ognuno di noi, che possiamo anche ignorare, o addirittura negare e che pure connota in maniera determinante la vita, le azioni, le opere di chi è nato nella stessa terra.
E' quel DNA che guida la creatività di Gaudì, genio isolato randagio ed eremita, che scioglie il suo sfrenato arbitrio nel liberare una fantasia naturalistica e simbolistica al limite dell'allucinazione.

I Gaudì, originari del Camp de Tarragona, erano caldereros, umili, pragmatici, abituati alla fisicità della materia, con inusuali capacità creative - dice un popolare aforisma catalano: "Gent del Camp, gent del llamp, y los de Reus, un manojo de rayos de Jupiter!"- e Antonio, nato a Reus, all'ombra del tempio di Jupiter Amon, rivendicò sempre le sue origini familiari e territoriali, attribuendo loro la sua capacità di una visione degli oggetti plastica e spaziale, prima che nel piano bidimensionale.

Vien da pensare subito a Borromini, alla sua capacità di concepire per immagini tridimensionali (come altri geni, Einstein, per esempio, Aalto, Gehry, Eisenman), Borromini al quale lo avvicina anche l'esaltazione mistica della sua febbre creativa, la disperata esigenza religiosa, una fede bisognosa di estasi e di catarsi, una genialità tenebrosa.

L'isolamento della Spagna, emarginata dal contesto storico-culturale europeo contemporaneo, lo sottrae ad ogni tentazione razionalistica, permettendogli di anticipare influssi espressionisti e consolidare progressivamente il suo linguaggio architettonico in modo autonomo e personale, dando vita a tortuose, complesse masse plastiche, anzi elastiche, che esprimono in chiave architettonica la deformazione attuata sulla figura dagli artisti espressionisti, i quali, comprimendo l'immagine, vogliono esercitare sulla forma una "pressione" attraverso cui far sgorgare il significato interiore della realtà.

Naturalmente, un importante riferimento culturale è, per Gaudì, il Gotico, per le sue implicazioni mistiche e l'ascetico verticalismo delle sue strutture, stile che egli rivisita in termini romantici, attraverso un eclettismo disinibito ed un decorativismo compiaciuto e narcisistico, facendo dell'arco parabolico una delle ossessioni delle sue opere.

E si ricorda del Barocco, ovviamente, quello di Borromini, con il suo decorativismo strutturale, qui contaminato da promiscue componenti culturali che arrivano da civiltà lontane nel tempo e nello spazio, echi arcaici, protostorici, Bruno Zevi dice sumerici.

L'intelligenza ordinatrice che guida la regia del suo operare lo porta a geniali invenzioni ingegneristiche, come le audaci forme paraboliche, o l'andamento sghembo delle colonne escoriate, inclinate secondo la direzione degli sforzi statici, esprimendo l'attenzione ad una ricerca tesa a raggiungere una sintesi tra l'aspetto statico-costruttivo e quello estetico-plastico.
Esplicite citazioni alla sua opera si ritrovano in un altro geniale conterraneo, Santiago Calatrava, che travasa il contenuto umanistico della tradizione catalana in gigantesche forme vagamente naturalistiche, strutture di sconosciuta morfologia simili a organismi spolpati, futuriste e primordiali insieme.

Anticipando un filone naturalistico che vedrà in Wright la sua espressione più nota, alcune opere di Gaudì sono delle vere "fioriture di pietra" dove la struttura sembra crescere da sola, come un ramo, come un albero, coperta di corteccia, di incrostazioni vulcaniche, di increspature laboriosamente plasmate:"La naturaleza -dice - es la gran obra del Creador".

Si può intuire quanto gli debba l'informale materico di Antonio Tapies, catalano di Barcelona, che forse ha un po' del suo stesso DNA e che certamente ha meditato sulle superfici martoriate di Casa Batllò o Casa Milà, forse il capolavoro di Gaudì.

Non si può fare a meno di parlare della Sagrada Familia, tempio espiatorio, l'opera più famosa di Gaudì, che ne edificò in realtà solo la cripta, l'abside e la Fachada do Nacimiento, acme della sua vicenda umana e professionale, nella quale, finalmente, come osserva Carlo Giulio Argan, si compie il manifestarsi "dell'antica paura lungamente repressa e finalmente liberata in un'orgia autopunitiva. E' la tragedia di una fede arcaica in un mondo moderno".

L'opera, mai finita, opera aperta per la quale lo stesso architetto ha previsto la necessaria incompiutezza, altare perpetuo, concepito secondo un complesso programma simbolico-catartico, talvolta criptico, si sviluppa per settori compiuti nella verticale, anziché procedere per strati orizzontali dalla pianta generale verso l'alto, in un trionfo di strutture arboree, di simboli, di colonne multiple che aboliscono i contrafforti gotici, in soluzioni statiche geniali ed insolite.

La Sagrada Familia è un'opera incompiuta, volutamente incompiuta, che trae il suo valore più profondo dall'essere concepita come una tappa di un processo che non può essere espresso nella sua interezza perché in continuo divenire, un processo espiatorio che deriva il suo senso da un rigorismo religioso che "si deve nutrire di sacrifici".

Il "non-finito", l'incompiuto, mezzo per coinvolgere il visitatore nel processo di creazione dell'opera, tema insistito, perseguito, dichiarato, che spinge ad un immaginario "compimento", è la base su cui costruire un rudere del futuro, nell'infinita evoluzione di una fede religiosa che continuamente si plasma e si contempla, è il mezzo per "sollevare un lembo del grande velo che cela la dinamica essenza del divenire dietro la statica apparenza dell'essere": una bella frase di Einstein, tanto più significativa se consideriamo che anche gli ultimi decenni di studi antropologici delineano la storia dell'umanità più come un divenire che come un essere, un processo piuttosto che uno stato, immerso nell'eterno panta rei eracliteo.

Il richiamo va ad un altro grande vecchio e a quel capolavoro di sconvolgente modernità che è la 'Pietà Rondanini', che anche lui, fosse campato altri cento anni, non avrebbe mai finito quella sua opera, Michelangelo, come Gaudì, esempio sublime di come la sensibilità artistica, nella vecchiaia, possa essere precorritrice del futuro.

Gombrich condiziona la realtà oggettiva del valore artistico di un'opera anche al seguito ed al consenso che essa ha nel tempo, giustificando così la necessità di una prospettiva storica sufficientemente ampia dalla quale emettere un giudizio ed implicitamente riconoscendo all'artista la peculiarità di cogliere, interpretare e coagulare pulsioni di carattere generale.

Gaudì, un solitario, forse conservatore della tradizione che dice "volviò a los origines", o forse spregiudicato avanguardista, non lascia discepoli, nessuno raccoglie la sua eredità, tant'è che il suo tempio è ancora incompiuto (e il mio fervido augurio è che tale resti). Per la critica, egli rimane anche oggi un personaggio controverso e discusso: Bruno Zevi vede in lui l'impronta del genio, Giedion, che nega anche l'importanza dell'Espressionismo, lo ignora, e come lui fanno Behrendt e Whittick, altri lo relegano entro i limiti di un fenomeno circoscritto, nel tempo e nello spazio, vagamente folkloristico, con atteggiamento riduzionista davanti all'incomprensibilità misterica dei suoi spazi architettonici.
Probabilmente si possano trovare buone ragioni in tutte queste posizioni, anche se personalmente sono incline ad una posizione sostanzialmente funzionalista, a concepire l'architettura in chiave storica, sociale ed antropologica, come attività che, a differenza di qualsiasi altra forma d'arte, deve sempre sottostare all'esigenza della destinazione d'uso e che, in quanto espressione concreta della storia dell'umanità, deve raccontare la storia degli uomini, e non di un uomo solo, per quanto grande, che esprima se stesso.

In una frase di Van Gogh - "Tutto è allo stesso tempo realtà e simbolo"- si può forse rintracciare la chiave di lettura dell'opera di questo genio dell'impossibile, così ostinato nella ricerca di un mondo perfetto in cui non è il reale ad essere rappresentato dal simbolo, ma, al contrario, è il simbolo l'unica realtà possibile.

* articolo aggiornato il 23/09/2015

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