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Santiago Calatrava
di Vilma Torselli
pubblicato il 30/05/2007
Un architetto-artista-ingegnere che progetta strutture in movimento per un’immagine variabile dell’architettura.
Santiago Calatrava (1951) è la dimostrazione dell'esistenza di una sorta di imprinting dei luoghi d’origine, derivato da un comune DNA che potrebbe giustificare, seppure in modo non rigorosamente scientifico, l’alta densità di personalità fuori dal comune in alcune regioni del mondo.
Una di queste è la Catalogna, culla del Modernismo, patria di una straordinaria serie di geni della cultura moderna quali Picasso, Mirò, Dalì, Gaudì e, appunto, Santiago Calatrava.
Tra gli architetti più noti dell’ultima generazione, Calatrava ripropone in chiave personale un tema che non ha mai smesso di percorrere l’architettura moderna, quello strutturalismo che, dai primi decenni del ‘900, sulla scia di uno sviluppo tecnologico senza precedenti, ha pervaso a macchia d’olio la cultura visiva dell’occidente, instaurando un indissolubile legame tra mezzi espressivi e nuove performance tecniche sia dei materiali che delle modalità del loro utilizzo.

La ricerca di una verità strutturale retta su un preciso sistema di rapporti elementari e su di una sua logica intrinseca, che informa la progettazione del primo Le Corbusier, di Louis Khan, Mies van Der Rohe, Pier Luigi Nervi, si lega in genere ad un concetto di essenzialità che vede coincidere la struttura con la forma architettonica, eliminato ogni passaggio intermedio sia di subordinazione che di relazione: si pensi all’importanza concettuale per esempio dei nodi strutturali sotto vetro nei grattacieli di Mies van Der Rohe, dello schema puntiforme indifferenziato dei pilotis di Le Corbusier, all’estetica del calcestruzzo di Pier Luigi Nervi, all’anima tecnologica della Norddeutsche Landesbank di Behnisch.

Ma la storia dell’architettura, e dell’arte in genere, si sviluppa entro due poli contrari che, come nella pila di Volta, generano energia proprio grazie alla reciproca repulsione-attrazione: è così che convivono ed interagiscono, nell’interminabile vicenda umana, l’efficiente organizzazione della ragione e l’irruente emotività dell’espressionismo.

Tra un’architettura in antagonismo dinamico con le leggi strutturali, tesa al superamento dei condizionamenti fisici della materia e della stessa forza di gravità, quella di Eero Saarinen, Gaudì, Gehry ed un’architettura assoggettata neutralmente alle esigenze tecniche, come l’high tech di Renzo Piano, Norman Foster, Richard Rogers, Calatrava sembra indicare una terza via, esasperando le possibilità stilistico-estetiche della struttura ed addivenendo ad un compromesso tra la complessità formale dell’espressionismo e le necessarie schematizzazioni e standardizzazioni imposte da un moderno processo costruttivo, o, per usare parole di Luigi Prestinenza Puglisi, ad un compromesso che rende “organiche strutture ingegneristicamente complesse”.

Per fare dello strutturalismo non basta assemblare efficientemente elementi funzionali alle esigenze statico-costruttive dell’insieme, ma è necessario adottare, e qui interviene la libertà creativa del progettista, una logica di sistema in grado di costituire un peculiare valore aggiunto che, gestalticamente, renda il tutto qualcosa di più della somma delle singole parti: nell’opera di Calatrava questo accade, clamorosamente. Scrive Antonino Saggio:”se l'ingegneria tradizionale si muove alla ricerca della soluzione spazialmente ed esteticamente più ricca, tra le molte tecnicamente equivalenti, per Calatrava essa è solo strumento per dare forma alla ricerca spaziale trasformandosi da arte della razionalità in arte della possibilità.

Certamente esiste il rischio che la “verità strutturale” diventi essa stessa un linguaggio formale avente come unico scopo quello di esplicitare un virtuosismo costruttivo frutto di scelte marcatamente soggettive, rischio già presente in Pier Luigi Nervi e moltiplicato esponenzialmente nell’opera di Calatrava: tanto che, spesso, davanti ad un’architettura strutturalista sorge la preoccupazione di ricercare uno “stile” in base al quale catalogarla, un riferimento, un precedente, che in Calatrava non esiste, a fronte di un linguaggio architettonico assolutamente nuovo, ritmato sulla simmetria e la ripetitività di moduli identici, che riesce a compiere una serie infinita di variazioni all’interno di una rete di rapporti strutturali costanti. Al confronto, il decostruttivismo può apparire smidollato, casuale ed incerto, privo di quella primigenia struttura informativa che conferisce alle forme curvilinee di Calatrava una tensione finalizzata, una sorta di consapevolezza intrinseca.

Calatrava non prescinde dall’essere spagnolo, e prima di tutto dall’essere nato in Catalogna, la regione della Spagna nella quale è più presente una coscienza fortemente identitaria, l’orgoglio di forti radici locali affondate nei luoghi naturali di superba bellezza, nel gotico catalano, nel barocco, avendo presente, sempre, Gaudì.
Dall’arco a sesto acuto e le forme ogivali di ricordo islamico al delirio decorativistico delle volte paraboliche della Colonia Güell che, con i pilastri inclinati secondo il diagramma di carico, già fanno intravedere come possibile la sintesi tra un audace strutturalismo e il fantasioso biomorfismo di un’architettura violentemente espressionista, Calatrava distilla un’idea progettuale che converte il contenuto umanistico della tradizione catalana in gigantesche forme vagamente naturalistiche, strutture di sconosciuta morfologia che paiono organismi spolpati, scheletri sbiancati dal tempo, carcasse di un passato prossimo venturo, futuriste e primordiali.
Ciò che resterà del nostro tempo e che già oggi ha l’aspetto di un reperto.

Eminentemente scultorea, di forte valenza plastica, giocata su audaci equilibri strutturali e sulla perfezione di forme geometriche apparentemente naturalistiche eppure informate da rigorosi rapporti matematici che ne assicurano la staticità, l’architettura di Santiago Calatrava, raffinato esercizio di un poeta della materia, ferma l’instabilità del movimento e ne fa il proprio tema conduttore.

Sta qui la sostanziale differenza con il raggelato strutturalismo di Pier Luigi Nervi, che punta invece sull’algida eleganza di masse ferme.

Con le sue leonardesche strutture semoventi, Calatrava ci insegna invece che l’architettura si può e si deve muovere, in senso letterale: diversamente dal decostruttivismo, che induce il senso del movimento manipolando ed influenzando il sistema percettivo dell’osservatore, egli progetta strutture, derivate da rotazioni e sovrapposizioni di profili curvilinei, che si aprono, ruotano, cambiano, si modificano, realmente, meccanicamente, assecondando l’imprevedibilità e la mutevolezza di quella che qualcuno ha definito, con felice espressione, l’immagine variabile dell’architettura di Santiago Calatrava.
Un’architettura in movimento e del movimento, non a caso la tipologia che caratterizza più incisivamente questo architetto-artista-ingegnere è il ponte, immagine di forte connotazione simbolica, non-luogo di connessione, funzione allo stato puro, struttura di tramite e di transito, proiezione dinamica verso l’ignoto, metafora di ciò che mette in relazione le distanze e le diversità, anche quelle tra ingegneria e fantasia, e soprattutto tra materia e idea.


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