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Francesco Borromini
di Vilma Torselli
pubblicato il 31/05/2007
Un architetto che divide la storia dell'architettura italiana in un "prima" e un "dopo" con la sua straordinaria concezione spaziale.
Da giovane, Francesco Castelli Borromini (1599-1667) lavora come scalpellino nel nord Italia, entrando così in contatto con la cultura lombarda di matrice gotica, romanica e rinascimentale, mentre dal quotidiano rapporto fisico con la materia impara presto che lo stesso informe pezzo di marmo può diventare una potente colonna o un elegante e leggero decoro e che la dura pietra grezza può nascondere insospettabili morbidezze.
La conoscenza dei classici dell'antica Roma, della cultura bizantina e degli straordinari studi architettonici di Michelangelo lo aiutano a maturare quello che sarà il suo personalissimo linguaggio poetico.

Francesco Borromini divide la storia dell'architettura italiana in un "prima" e un "dopo": il "prima" è l'architettura del Rinascimento, che ha conquistato la tridimensionalità attraverso le leggi della prospettiva, inducendo un concetto di rappresentazione spaziale in un certo senso semplificata, fatta di volumi squadrati, angoli retti, punti di vista fissi, predominanza della rettilinearità, precise caratteristiche di tutto il '400 e il '500.
Il "dopo" è la strada che questo uomo solitario, scontroso, inviso, con le sue sole forze e i suoi soli mezzi saprà aprire verso un futuro che arriva fini ai nostri giorni.
Dice Bruno Zevi, "I grandi spiriti, quelli veramente grandi, hanno sempre combattuto la prospettiva ….Basta pensare a Borromini….".
E infatti, negando il condizionamento di regole precostituite, Borromini rifiuta l'ingabbiamento prospettico della progettazione, la serena staticità delle strutture rinascimentali, l'equilibrio, la gravità, la fermezza, le certezze della tradizione.
Veramente rivoluzionaria la sua concezione spaziale, che ribalta i canoni classici, sostanzialmente elementaristi ed associazionisti di una architettura antropomorfa, concepita in funzione della visione prospettica, e propone uno spazio articolato, plastico, modellabile, ma rigorosamente unitario, con un approccio che oggi si definirebbe gestaltico e che costituisce il grosso debito che l'architettura moderna ha nei suoi confronti (di lui certamente si ricordano Aalto, Wright, Gerhy e soprattutto Gaudì).

Il pensiero di Borromini si dispiega "per immagini", per forme tridimensionali di grande complessità geometrica, scomposte e ricomposte all'interno di un'unità spaziale che, tuttavia, si differenzia in una molteplicità di sottili variazioni a seconda delle attribuzioni psicologiche e delle caratteristiche strutturali e funzionali identificate dal progettista, nell'ambito di un discorso libero ed insieme saldamente coerente.

Si è molto scritto sulla complessa geometria alla base delle articolate piante dei suoi progetti, che fondono schemi classici ricavandone combinazioni assolutamente originali ed innovative, elemento significativo, ma accessorio per l'analisi, che ha tuttavia il valore di una sorta di dichiarazione d'intenti: quella che sarà l'opera finita, nella sua ondulata sensualità dal prorompente decorativismo simbolico, per la prima volta divenuto anche elemento strutturale, non può prescindere da un substrato organizzato e rigoroso.
La costruzione architettonica viene concepita nella sua totalità, fin dall'inizio schema geometrico, superficie, volume, spazio vuoto-pieno, entità olistica, un tutto organico interno-esterno, una simbiosi nella quale vengono assorbiti struttura, decorazione, lucidità progettuale, enfasi creativa.
Forse l'espressione più compiuta e matura dell'arte di Francesco Borromini si trova in quel capolavoro barocco che è Sant'Ivo alla Sapienza, dove il dinamismo spaziale, che resterà uno dei temi fondamentali del barocco, si esprime mirabilmente in un moto ascensionale che sale ininterrotto dal piano di calpestio all'elica innalzata sul cupolino della lanterna, sottraendo la materia alla forza di gravità, agganciandola al cielo.

Indubbiamente è di straordinario interesse anche la chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, complesso di dimensioni ridotte, in una posizione urbanisticamente anomala, lontana dall'impianto tradizionalmente assegnato alla chiesa nel tessuto urbano.
Qui Borromini cancella con un deciso colpo di spugna la sintassi dell'architettura rinascimentale e risolve le latenti istanze della cultura del suo tempo con soluzioni geniali e rivoluzionarie, applicate al particolare ed al tutto: definisce una spazialità continua, senza angoli né stacchi né arresti, raccordando le pareti con elementi curvi, concavi e convessi, in pianta ed in alzato, muovendole secondo una equilibrata alternanza di linee che comprimono o dilatano lo spazio sotto la spinta di una potente dinamicità, alternativamente centripeta e centrifuga.
Fuori, la facciata, dall'ondulazione tesa e nervosa, dalle proporzioni ardite che non hanno dimenticato la tradizione gotica (della quale, in altre occasioni, Borromini riprende in chiave decorativa alcuni elementi), lascia intuire il flessibile spazio interno, curvato secondo un preciso contrappunto.
Dentro, lo sguardo corre senza soluzione di continuità lungo l'avvolgente perimetro curvilineo, sale lungo le pareti perimetrali mosse nella loro continuità verticale, fino alla lanterna dalla quale la luce si spande quietamente, suggestiva e spirituale.
Al centro di questo spazio magico, la sensazione è quella di un momentaneo equilibrio assoluto, di una tensione controllata, come se tutto convergesse a definire una perfezione sospesa che ha l'irripetibilità del "qui e ora", non statica, ma animata da una vibrazione interiore che si realizza e si rinnova in ogni momento.

Storicamente, il ritratto che ci viene tramandato è quello di un Borromini intransigente, solo, depresso, suicida, personaggio complesso e bizzarro fuori dai canoni e dal senso comune, come la sua architettura: non credo, come si disse, che fosse pazzo, probabilmente era solo un uomo che aspirava a superare i limiti della materia e, forse, del suo stesso corpo.

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