Nonostante il cambiamento sia l’essenza
della vita su questa terra e la storia di ogni singolo "hic
et nunc" delle nostre piccole esistenze individuali
sia irripetibile e sempre diversa, tuttavia quello che l’uomo
preferisce sembra essere un mondo senza sorprese, dove calcolabilità,
prevedibilità e controllo si associano all’idea
di efficienza e affidabilità.
Questa sindrome, che si chiama, con termina di origine greca, "kainotetofobia", paura dei
cambiamenti e delle novità, di tutto ciò che
non è noto, compreso e riconducibile a canoni consolidati,
è una paura che ha anche i suoi aspetti positivi,
poiché attiva utili meccanismi di difesa: il nuovo
ci fa temere l’invalidazione delle credenze assimilate
e divenute parte della nostra identità individuale
e collettiva ed averne timore è un innato ed inevitabile
retaggio antropologico, la ripetizione del comportamento
del nostro antenato preistorico che, indifeso davanti all’imprevisto
a causa della propria ignoranza, temeva ogni novità
ed ogni dirottamento da una realtà nota e quindi
dominabile, che significava spesso la garanzia della propria
sopravvivenza.
Questo retaggio è oggi alla base della sempre crescente
offerta/richiesta di prodotti omologati e appiattiti prevedibilmente
accettabili da tutti, in un villaggio globale dove le tradizioni
e gli usi sedimentati nella storia di una comunità,
specifici e significativi nel contesto in cui nascevano,
perdono ogni valore autentico nel tentativo di adattarsi
ad esigenze indifferenziate ed estranee rispetto agli imput
iniziali.
Si tratta di una caratteristica saliente del nostro tempo,
prodotto di integrazioni selvagge e senza mediazione fra
culture diverse ed estranee, che per le sue molte contraddizioni
ed antinomie alimenta in molti campi diatribe spesso tanto
obsolete quanto oziose tra modernismo e conservatorismo.
Accade anche in architettura ed urbanistica, dove si dibatte
se sia più utile reinventare il linguaggio per una
modernità che sta faticosamente cercando strade autonome,
o recuperare una continuità formale col passato che,
senza destabilizzanti innovazioni, pieghi alle esigenze
attuali forme e concetti già ampiamente collaudati.
Se quest’ultima posizione fosse stata adottata sempre,
e non si vede se, valida oggi, non avrebbe dovuto esserlo
a maggior ragione prima, l’urbanistica fino qui prodotta
dovrebbe derivare da una sorta di big bang iniziale,
un fenomeno noto come spontaneismo urbanistico
che in passato ha dato origine a piccoli miracoli paesaggistici,
ma che oggi appare un approccio metodologico del tutto inadeguato
alla dimensione demografica e alla struttura sociale di
qualsivoglia paese occidentale.
E’ infatti un atto di utopistico ottimismo credere
che lo sviluppo della città possa avvenire spontaneamente,
autodeterminandosi secondo un proprio modello che origina
da lontano, senza l’intervento o l’indirizzo
di poteri esterni e procedure codificate. L’ultimo
esempio negativo lo abbiamo avuto nell’Italia degli
anni ’50, quando l’esodo dalle campagne lasciò
il territorio in preda allo spontaneismo più assoluto,
considerato acriticamente come forza vitale proveniente
dal basso e in grado di esprimersi autonomamente.
Il primo nucleo costruito che l’abitante stanziale
ha eretto in forma stabile per abitare l’ambiente
è certamente frutto di un felice spontaneismo urbanistico
che lo ha reso unico e singolare, così come la città
spontanea è stata mirabile sintesi di usi e costumi,
memoria storica, struttura sociale ed economica di una comunità,
ma oggi il processo spontaneo di sviluppo urbanistico all’insegna
di un laisser faire che rischia di sconfinare nell’abusivismo
e nell’urban spraw, così come lo spontaneismo
in politica può sfociare nell’estremismo anarchico,
rappresenta un'errata risposta al problema della trasformazione,
che si gestisce invece attraverso l’organizzazione
e la direzione incondizionata dei fenomeni di sviluppo.
E poiché l’atto politico è l’espressione
concreta della civiltà e “l’uomo
è tutto una formazione storica ottenuta con la coercizione”
(Antonio Gramsci, 'Lettere dal carcere'), la civitas ha
dovuto dotarsi di regolamenti e leggi 'coercitive' per indirizzare
nei binari di una corretta convivenza le sempre più
numerose esigenze individuali e collettive, ciò non
guardando ai modelli pregressi, ma assecondando le nuove
necessità e le esigenze emergenti.
Infatti la tipologia architettonica ed urbanistica ha sempre
assecondato il nuovo, non solo adattando, ma soprattutto
inventando il presente in quello che, paradossalmente, pare
un processo più ‘spontaneo’ della rassicurante
conservazione auspicata da chi vorrebbe reiterare forme
e modi appartenenti al passato.
Le motivazioni degli insediamenti umani sono in passato
derivate dalla posizione geografica, dalla ricchezza di
risorse del territorio, dalle caratteristiche climatiche,
dalla presenza di corsi d’acqua, di passi di transito,
di vie di collegamento commerciale o religioso, la città
che ne seguiva era quanto di meno peggio si potesse fare
per porre ordine e pacificazione civile in quel particolare
tessuto sociale ed economico, in quel momento storico, ma,
sia per il decadere di quei valori sia per la nascita di
altri, il modello urbanistico che rispecchia la società
odierna non può essere una versione riveduta e corretta
di quello del secolo scorso o anche di soli 50 anni fa.
La lettura dello spazio costruito come struttura sociale,
prodotto dinamico in cui le architetture e le soluzioni
urbanistiche sono il risultato del confronto dialettico
all’interno delle comunità mette irrimediabilmente
in crisi le aspirazioni programmatiche e iconografiche di
una certa urbanistica passatista e antistorica che propone
nostalgiche rivisitazioni di centri storici e oleografici
recuperi falso-antico, a beneficio di un nuovo concetto
di città che non si deve porre necessariamente in
antitesi con la città esistente, ma affiancarla ed
integrarla.
Il 'come' è la vera sfida dell'urbanistica moderna. |