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Un commento di Pietro Pagliardini
C'era una volta lo spontaneismo e….c’è ancora, mi verrebbe da dire, visto che ognuno fa ciò che vuole, che sia architetto o costruttore. Ma questa è solo una battuta, tanto per tenere fede alla tua espressione che mi qualifica come “la voce della dissidenza”, che mi lusinga molto anche se, qui nel mio accogliente studio, non mi vedo proprio nei panni di Andrej Sacharov.
La frase finale dell’articolo, cioè la sfida del “come” costruire la città nuova, mi lascia uno spiraglio aperto non tanto per fare un commento, che non è affatto importante, quanto per inserirmi nel ragionamento e tentare di individuare possibili soluzioni.
Dato atto che lo spontaneismo urbanistico, ed anche architettonico (inteso come spontaneismo collettivo) non è praticabile in una società “aperta” agli interessi individuali e del tutto priva di un comune interesse collettivo, non per “cattiveria” o volontà di qualcuno ma per oggettiva impossibilità storica, sociale ed economica (e comunque se occorre trovare un qualche rimedio a questa situazione della società non è compito disciplinare degli architetti in quanto tali, semmai come semplici individui al pari degli altri) è però vero che l’intervento dell’urbanista dovrà avvenire in base a principi e valori che si basino su certe regole le più condivise possibili, altrimenti si ricadrebbe in uno spontaneismo d’elite cioè uno spontaneismo degli architetti in cui ognuno fa ciò che ritiene utile e opportuno; con la differenza che le forme spontanee di costruzione della città derivano da una condivisione di valori globali della società e di conseguenza di una condivisione, spontanea e non intenzionale, dei criteri “estetici” e costruttivi, la traccia dei quali è facilmente leggibile nella città storica che è la somma di tanti gesti individuali ma tutti armonizzati tra loro in un gesto collettivo.
Viceversa lo spontaneismo di una classe di tecnici deputati per legge e per cultura a fare progetti, si configurerebbe come gesto “intenzionalmente spontaneo”, cioè una contraddizione di termini, dato che non può esservi spontaneità una volta che si è persa l’innocenza a causa dello storicismo. In realtà la necessità di “regole” deriva proprio da questo fatto: o ci sono regole o c’è non tanto spontaneità quanto assoluto arbitrio. Esiste in quest’ultimo caso una regola ferrea che è la assoluta mancanza di regole.
E infatti è proprio l’arbitrio a regolare, negli ultimi anni, l’architettura e, nei casi di progetti di area su vasta scala, anche l’urbanistica (diverso è il caso dei PRG che seguono altre logiche).
La fase precedente a questa era invece caratterizzata da regole, sbagliate quanto si vuole, ma regole condivise largamente tra gli architetti-urbanisti, meno o niente affatto condivise, o almeno ignorate, dalla gente: erano le regole dello zoning, della parcellizzazione della città in parti a funzione diversa e definita, le regole del lotto in mezzo al verde (quando andava bene), le regole della disintegrazione della strada come elemento generatore delle relazioni urbane, intesa sia come tessuto che connette e dà continuità alla città nel suo complesso, come “rue corridor” , che LC vuole e riesce ad abbattere, che lega direttamente gli edifici alla strada e diventa così la proiezione pubblica dell’abitazione privata, creando in tal modo una gerarchia negli edifici stessi tra un davanti e un dietro, tra un basso (fondi, negozi, botteghe) e un alto (residenza), con conseguenze visibili e concrete nella tipologia edilizia e nell’aspetto esterno degli edifici.
Queste regole di un’avanguardia (altra contraddizione) che hanno contraddetto secoli di sviluppo della città, e dunque delle “abitudini” di vita dell’uomo nel suo ambiente “naturale”, belle o brutte, giuste o sbagliate, c’erano e i loro effetti sono le nostre città contemporanee, quelle fuori dai centri storici o almeno quelle oltre gli sviluppi urbani ottocenteschi e primi 900 che, con tutti i difetti possibili, conservano in linea di massima, anche se a scala più grande, la strada con i fronti edilizi continui, una rete viaria fortemente connessa, le piazze che, spesso, si trasformano in giardini.
Oggi, secondo me come portato di quell’idea consapevole, direi quasi un programma, più che un’idea, di annullare il patrimonio del passato, siamo alla totale mancanza di regole, in cui poi, è chiaro, il mondo economico legato alle costruzioni naviga come un pesce nell’acqua, le ultime regole rimaste essendo solo quelle di carattere legislativo e normativo, prive di qualsiasi legame con una qualsiasi idea costruttiva, fatte di numeri che possono essere facilmente cambiati, in genere in aumento, senza modificare l’andazzo generale di disinteresse per la città.
Oggi si può parlare, più che di spontaneismo, di produzione e gestione urbanistica anarchica, nel senso che ognuno può fare (spesso con grande fatica) ciò che vuole, relativamente al proprio livello di contrattazione (il piccolo tramite lo scambio di consenso, il grande tramite lo scambio di consenso e anche di altro).
Io dico, paradossalmente, che se uno si mette in testa di costruire in Piazza Guido Monaco ad Arezzo, passeranno gli anni, ma alla fine ce la potrebbe anche fare.
Che la nostra società sia intrinsecamente centripeta è assolutamente evidente e, ti dirò, che da una parte è inevitabile dall’altra è anche un bene, perché dentro l’anarchia sta anche la libertà individuale e la possibilità dell’affermazione dell’individuo; però è chiaro che a tutto c’è un limite.
Quali regole dunque? Il punto di conflitto sembra risiedere nel contrasto tra modernisti e passatisti. Dico sembra perché per confliggere bisogna essere almeno in due ma, allo stato attuale e da molti decenni il contendente è uno solo, libero, indiscusso, assolutamente padrone del campo. Se i “passatisti” esistono sono pochi e molto poco operativi e le loro tracce vanno trovate col lanternino, come oggetti da amatori al mercato delle pulci. Dunque il conflitto sarebbe solo teorico ma, anche in questo campo, la sproporzione è tale per mezzi e distribuzione da non esserci praticamente gara.
Il “verbo” passatista può essere perciò diffuso, diciamo così, in un ambito che potremmo definire da “caminetto”, tra amici che si apprezzano, anche se di idee niente affatto coincidenti, e dunque destinato, nel presente, a non lasciare tracce significative se non quelle di cercare di recuperare un po’ dell’esagerato gap.
Restando al gioco del conflitto, devo dire che questo è basato su presupposti, da entrambe le parti, sbagliati, su un equivoco di fondo che è quello “stilistico”. Tale equivoco nasce, ovviamente, da fatti reali: dal fatto che il New Urbanism ha ripreso “forme” architettoniche della tradizione americana, che Lèon Krier fa uso di forme classiche e vernacolari (ma a ben guardare i suoi disegni non si può non leggervi il marchio potente della sua mano e dunque la classicità si restringe ai principi più che alle forme), che al primo e più famoso intervento, che è diventato una sorta di cult, cioè Poundbury, in cui l’aspetto architettonico di forte impronta tradizionale fa velo alla grande novità di aver verificato, anche se in scala non propriamente urbana, un impianto urbanistico tradizionale funzionante anche nella situazione odierna.
E’ chiaro che la condizione di minoranza assoluta accentua ed esaspera i valori identitari, per evitare l’estinzione. Come è chiaro che, nel campo opposto, ma direi semplicemente “nel campo” nulla viene concesso alla tradizione, alla storia, anzi si fa di tutto per negarla e per inventare forme ormai riconosciute assurde e sbagliate da molte parti.
Allora, per riprendere il filo del discorso, “come” fare? Si è visto che lo zoning non funziona e credo che sia riconosciuto dai più; si è visto che l’anarchia assoluta non solo stanca ma è chiaramente negativa per il territorio, la città e l’uomo; perché dunque non applicare i principi generatori di crescita e sviluppo della città storica, aggiornandoli alla mobilità sociale (che poi ci sia tutta questa mobilità da noi è da verificare, salvo il fenomeno immigrazione), alla presenza ineluttabile dell’auto ma attenuata ormai dalla consapevolezza della salvaguardia dell’ambiente e della salute dei cittadini?
Io parlo di regole non di stile: una strada (che certamente non potrà più essere larga 6-7 metri) è sempre una strada sia che le case che vi affacciano siano legate alla tradizione oppure abbiano il rigore geometrico della modernità, e la relativa scelta non potrà che essere appannaggio del committente. Si perderà, è ovvio, la grande unità nella diversità, espressione naturale di una società più libera o, se si vuole, dai valori meno condivisi, ma si recupererà il senso della città, del quartiere, della strada, dell’appartenenza non solo alla propria casa ma anche al proprio ambiente di vita.
E’ una formula semplicistica? Per me è una formula semplicemente accettabile, visto che sono convinto che prima che l’architettura debba essere l’urbanistica a dover essere ricostruita, il disegno generale a imprimere il ritmo a quello particolare. Se il disegno generale è sconclusionato non si può chiedere al dettaglio di essere ordinato.
Utopistico ottimismo, tu dici, ma dici anche che “l’atto politico è espressione concreta della civiltà” e citi Gramsci; io potrei citare l’ottimismo della volontà di Craxi, con ciò facendomi ancora più nemici.
Le regole (ripeto, ho detto regole e non forma) di crescita della città storica sono sempre valide, anche alla luce degli studi sulle reti che hanno una straordinaria coincidenza con il metodo muratoriano di lettura della città. Non c’è niente di nostalgico, niente di “passatista” in questa considerazione, nessuna volontà di fare un’antica Roma invece di una nuova Dubai; certo, c’è anche un modo spregiudicato di guardare la realtà che non vede niente di male, anzi molto di bene quando si interviene in un centro storico ad adottare interventi mimetici, per il semplice fatto che l’architettura è evolutiva anche se è mimetica: è solo un modo di evolversi diverso. Il leone ha la criniera per fare paura, il camaleonte cambia colore per non farsi vedere. In base ad un rigido criterio evolutivo (che io non seguo) i due comportamenti non sono soggetti a giudizi di valore diverso.
Ma la regola prima, quella a monte di tutto, è un’altra ancora: l’architettura, l’urbanistica è figlia della società, e questo è ovvio, ma l’architetto e l’urbanista comunque vada prende delle decisioni che possono essere in un modo o in un altro, e lo fa tra tensioni, pressioni molteplici, non è cioè, del tutto libero (fortunatamente dico io). Ma se nel suo progetto parte in un modo o nell’altro, il compromesso finale che sarà il progetto e soprattutto la realizzazione dello stesso, sarà figlio di quel modo con cui è partito.
Molto dipende proprio da quell’inizio, dalla sua cultura e dalle sue convinzioni.
Non rifugiamoci sempre nella società: la società siamo noi.
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