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Testi di Vilma Torselli su "Antithesi", giornale online di critica d'architettura.
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American Art 1961-2001 la storia dell'arte moderna negli Stati Uniti tra due momenti decisivi della storia americana, la guerra del Vietnam e l'attacco alle Torri Gemelle.
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Concorso artistico Lucca Biennale Cartasia 2022, tema conduttore di questa edizione “The white page” (pagina bianca), le infinite possibilità per gli artisti di raccontarsi tramite le opere in carta.

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I vincitori del Premio Pritzker per l'architettura 2021 sono Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal: talento, visione e impegno per migliorare la vita delle persone.

In Italia
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All'estero
Parigi, all’Espace Lafayette-Drouot "The World of Bansky”, su 1200 mq. esposte un centinaio di opere del più famoso street artist del mondo. Fino al 31 dicembre 2021.

Remix 2
di Pietro Pagliardini
pubblicato il 11/04/2009
Una interessante puntualizzazione sul tema del remix in architettura, a firma di Pietro Pagliardini.

L’idea dell’architettura come hacking e quindi dell’architetto come hacker è estremamente stimolante.
Per quello che ne so esistono diversi tipi di hackeraggio ma mi orienterei su quello “buono” o almeno quello che ha intenzioni buone.
L’hacker si appropria di conoscenze riservate per renderle disponibili a tutti e l’architetto in fondo è sempre stato un hacker perché è sempre penetrato in una rete di informazioni altrui: ha attinto da conoscenze e da forme pre-esistenti, da progetti altrui; ha copiato, interpretandola, la natura e i suoi misteri, oppure ha trasferito nelle sue opere presunte conoscenze esoteriche di altri o ha mostrato nelle sue opere simboli religiosi o magici con ciò rendendole esplicite a tutti.
In questo senso l’architetto è certamente colui che ri-programma forme già esistenti scegliendole dal mucchio (un po’ trovarobe del mondo dello spettacolo) e le organizza in modo diverso (un po’ scenografo).

Ma questo ci racconta un aspetto del lavoro dell’architetto che, in fondo, non è il più importante perché ci spiega un “metodo”, ci spiega cioè il “come” non il “perché”.
Ma è davvero così importante il “come” l’architetto procede nel suo lavoro? A chi altri può interessare se non agli architetti stessi!
Importante è capire “perché” quelle determinate forme, che in gran parte già esistono, vengono rimontate e riprogrammate in quel determinato modo e non in un altro, dato che con lo stesso materiale di partenza si possono comporre forme totalmente diverse. E prima ancora: perché scegliere determinati materiali e non altri se non in base ad un disegno, ad un progetto che già è abbozzato nella sua mente? Non esiste ricerca che non abbia già in sé una teoria da verificare, che non sappia già cosa cercare, altrimenti non sarebbe una ricerca ma un’estrazione alla cieca.
E qui si inciampa in un altro problema: il “come” è la domanda a cui cerca di dare risposta la scienza, il “perché” è la domanda a cui cerca di dare risposta la filosofia; ma l’architetto è scienziato o filosofo o tutte e due le figure insieme o nessuna delle due? Per quanto mi sia sforzato, non sono riuscito a considerare l’architetto come uno scienziato quanto piuttosto come un “esperto” che utilizza la scienza di altri per i suoi scopi. L’atto “creativo” che egli compie consiste nello scegliere cose nel mucchio e organizzarle in una forma compiuta, classica o destrutturata poca conta, perché sempre di forma si tratta.

E si ritorna al solito punto: perché sceglie quelle cose e perché le compone in quel determinato modo e non in un altro?

La risposta la dai te all’inizio del tuo articolo, laddove poni correttamente due possibilità, che corrispondono a due atteggiamenti completamente diversi, a due filosofie completamente diverse:
1) La prima è quella in cui “il territorio e la città possono essere visti come luogo di incontro, dialogo e confronto in cui ogni comunità origina e gestisce con metodologie proprie la definizione del proprio habitat
2) La seconda quella in cui “si considera l’habitat come una realtà già consolidata, anche se per certi versi astratta, con sue peculiari caratteristiche (dove) ogni nuovo intervento deve trarre le sue direttive dall’esterno, dal contesto, dall’intorno, inserendosi nella storia dei luoghi e rispettandone le preesistenze”.

La prima pone l’accento più sulle interazioni emozionali personali nei confronti del mondo circostante e porta, per assurdo ed esasperando il concetto, ad una città per ogni individuo, è una visione più “instabile”, in movimento, apparentemente più democratica perché mette al centro l’individuo, nel senso “ogni individuo”, ma rischia la babele di lingue e l’instabilità psicologica; la seconda attribuisce più importanza ai valori interiorizzati del contesto, dell’ambiente che già esiste, è una visione più “stabile” perché adotta linguaggi conosciuti, è più rassicurante, ma rischia di non accontentare tutti perché più impositiva in quanto basata su un universo di valori che possono non essere, come non lo sono, da tutti condivisi, mettendo al centro “l’uomo”, considerato come categoria che possiede valori comuni.
Se l’architetto deve scegliere ogni volta tra queste due possibilità, e in gran parte è proprio così, intanto significa che l’architetto è più guidato dalla filosofia piuttosto che dalla scienza.

Ma ciò che conta è capire se sia possibile contemperare a queste due istanze diverse e trovare un punto di equilibrio tra due opposti.
Non so se è possibile ma so che è necessario perché da un lato, operando negli ultimi anni l’architetto in base al primo dei due casi ne è venuta davvero fuori una babele di lingue che soddisfa, credo, più gli autori che gli attori. Non credo che chi abita, in senso lato, quei luoghi e quelle architetture possa dire con serenità: io vi ho trovato la mia città, sono soddisfatto. Inoltre questa città ha anche interferito fortemente con quella tramandataci dalla storia, in taluni casi fino a renderla illeggibile, e questo non mi sembra una cosa saggia in assoluto.

D’altronde non è ipotizzabile né un ritorno all’antico considerato in senso letterale, stilistico e funzionale perché sarebbe una scelta perdente oltre che una fuga nell’utopia.

Quindi hai ragione quando dici che “occorre capire che ogni evento si colloca in un tutto e cogliere l’indissolubile dialettica che lega passato e futuro nella definizione di ogni momento della nostra vita”. Meno d’accordo sono sul fatto della “consapevolezza che nulla ha un senso comune definitivo, che la realtà stessa non è definitiva”. Ma qui si ritorna alla scelta individuale tra l’opzione 1 e l’opzione 2.

Qui giocano fattori diversi che vengono un momento prima dell’architettura.

link:
http://regola.blogspot.com/

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DE ARCHITECTURA
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