L’idea dell’architettura come
hacking e quindi dell’architetto come hacker è
estremamente stimolante.
Per quello che ne so esistono diversi tipi di hackeraggio
ma mi orienterei su quello “buono” o almeno
quello che ha intenzioni buone.
L’hacker si appropria di conoscenze riservate per
renderle disponibili a tutti e l’architetto in fondo
è sempre stato un hacker perché è sempre
penetrato in una rete di informazioni altrui: ha attinto
da conoscenze e da forme pre-esistenti, da progetti altrui;
ha copiato, interpretandola, la natura e i suoi misteri,
oppure ha trasferito nelle sue opere presunte conoscenze
esoteriche di altri o ha mostrato nelle sue opere simboli
religiosi o magici con ciò rendendole esplicite a
tutti.
In questo senso l’architetto è certamente colui
che ri-programma forme già esistenti scegliendole
dal mucchio (un po’ trovarobe del mondo dello spettacolo)
e le organizza in modo diverso (un po’ scenografo).
Ma questo ci racconta un aspetto del lavoro dell’architetto
che, in fondo, non è il più importante perché
ci spiega un “metodo”, ci spiega cioè
il “come” non il “perché”.
Ma è davvero così importante il “come”
l’architetto procede nel suo lavoro? A chi altri può
interessare se non agli architetti stessi!
Importante è capire “perché” quelle
determinate forme, che in gran parte già esistono,
vengono rimontate e riprogrammate in quel determinato modo
e non in un altro, dato che con lo stesso materiale di partenza
si possono comporre forme totalmente diverse. E prima ancora:
perché scegliere determinati materiali e non altri
se non in base ad un disegno, ad un progetto che già
è abbozzato nella sua mente? Non esiste ricerca che
non abbia già in sé una teoria da verificare,
che non sappia già cosa cercare, altrimenti non sarebbe
una ricerca ma un’estrazione alla cieca.
E qui si inciampa in un altro problema: il “come”
è la domanda a cui cerca di dare risposta la scienza,
il “perché” è la domanda a cui
cerca di dare risposta la filosofia; ma l’architetto
è scienziato o filosofo o tutte e due le figure insieme
o nessuna delle due? Per quanto mi sia sforzato, non sono
riuscito a considerare l’architetto come uno scienziato
quanto piuttosto come un “esperto” che utilizza
la scienza di altri per i suoi scopi. L’atto “creativo”
che egli compie consiste nello scegliere cose nel mucchio
e organizzarle in una forma compiuta, classica o destrutturata
poca conta, perché sempre di forma si tratta.
E si ritorna al solito punto: perché sceglie quelle
cose e perché le compone in quel determinato modo
e non in un altro?
La risposta la dai te all’inizio del tuo articolo,
laddove poni correttamente due possibilità, che corrispondono
a due atteggiamenti completamente diversi, a due filosofie
completamente diverse:
1) La prima è quella in cui “il
territorio e la città possono essere visti come luogo
di incontro, dialogo e confronto in cui ogni comunità
origina e gestisce con metodologie proprie la definizione
del proprio habitat”
2) La seconda quella in cui “si
considera l’habitat come una realtà già
consolidata, anche se per certi versi astratta, con sue
peculiari caratteristiche (dove) ogni nuovo intervento deve
trarre le sue direttive dall’esterno, dal contesto,
dall’intorno, inserendosi nella storia dei luoghi
e rispettandone le preesistenze”.
La prima pone l’accento più sulle interazioni
emozionali personali nei confronti del mondo circostante
e porta, per assurdo ed esasperando il concetto, ad una
città per ogni individuo, è una visione più
“instabile”, in movimento, apparentemente più
democratica perché mette al centro l’individuo,
nel senso “ogni individuo”, ma rischia la babele
di lingue e l’instabilità psicologica; la seconda
attribuisce più importanza ai valori interiorizzati
del contesto, dell’ambiente che già esiste,
è una visione più “stabile” perché
adotta linguaggi conosciuti, è più rassicurante,
ma rischia di non accontentare tutti perché più
impositiva in quanto basata su un universo di valori che
possono non essere, come non lo sono, da tutti condivisi,
mettendo al centro “l’uomo”, considerato
come categoria che possiede valori comuni.
Se l’architetto deve scegliere ogni volta tra queste
due possibilità, e in gran parte è proprio
così, intanto significa che l’architetto è
più guidato dalla filosofia piuttosto che dalla scienza.
Ma ciò che conta è capire se sia possibile
contemperare a queste due istanze diverse e trovare un punto
di equilibrio tra due opposti.
Non so se è possibile ma so che è necessario
perché da un lato, operando negli ultimi anni l’architetto
in base al primo dei due casi ne è venuta davvero
fuori una babele di lingue che soddisfa, credo, più
gli autori che gli attori. Non credo che chi abita, in senso
lato, quei luoghi e quelle architetture possa dire con serenità:
io vi ho trovato la mia città, sono soddisfatto.
Inoltre questa città ha anche interferito fortemente
con quella tramandataci dalla storia, in taluni casi fino
a renderla illeggibile, e questo non mi sembra una cosa
saggia in assoluto.
D’altronde non è ipotizzabile né un
ritorno all’antico considerato in senso letterale,
stilistico e funzionale perché sarebbe una scelta
perdente oltre che una fuga nell’utopia.
Quindi hai ragione quando dici che “occorre capire
che ogni evento si colloca in un tutto e cogliere l’indissolubile
dialettica che lega passato e futuro nella definizione di
ogni momento della nostra vita”. Meno d’accordo
sono sul fatto della “consapevolezza che nulla
ha un senso comune definitivo, che la realtà stessa
non è definitiva”. Ma qui si ritorna alla
scelta individuale tra l’opzione 1 e l’opzione
2.
Qui giocano fattori diversi che vengono un momento prima
dell’architettura.
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