“I pilastri della terra” è il titolo di un romanzo storico di Ken Follet ambientato nel XII secolo dove il protagonista Tom è un mastro costruttore, un architetto-muratore perennemente in viaggio nell’Europa medioevale in cerca di lavoro, che progetta e costruisce edifici trasportando e diffondendo le sue abilità pratiche e stilistiche sulle nuove tecniche costruttive che ha direttamente sperimentato ed è in grado di riprodurre.
La sua abilità è affidata a quell’iterazione continua tra mano e cervello tipica dell’homo faber, quando "poietés" e "technités" erano una sola persona ed in essa si condensavano conoscenza della materia e capacità di applicarla con metodica razionale.
Passati i tempi in cui la dicotomia platonica, sulla scia del dualismo anima-corpo, voleva separare le due figure, Tom impersona il prodromo dell’uomo rinascimentale, dei grandi progettisti-artisti-tecnici quali saranno Leon Battista Alberti, Michelangelo e poi, in epoca barocca, Borromini o Bernini.
Giunto, nel suo peregrinare, ad un convento nell’immaginaria località di Kingsbridge in Inghilterra, Tom illustra al priore l’audace progetto di una cattedrale mai vista, con archi a sesto acuto, pilastri compositi, rosoni, altissime murature, contrafforti esterni.
Interrogato circa i tempi esecutivi per portare a compimento un’opera così grandiosa, Tom risponde che, con adeguate maestranze, per completare l’edificio potrebbero bastare 15 anni, anche se, in realtà, confesserà ai suoi figli-aiutanti che per raggiungere il completamento della cattedrale ce ne vorranno 50 di anni, con la certezza che né lui né loro né il priore riusciranno a vederla finita.
Il grandioso edificio sorgerà gradualmente nel tempo, connotandosi poco alla volta in tutta la sua poderosa architettura, decantando lentamente nella cultura di quella comunità il suo curioso miscuglio di guglie, doccioni, capitelli, sculture, lesene e costoloni, nascerà dal nulla sotto le mani di generazioni di operai, scalpellini e carpentieri, accoglierà nel suo lungo processo generativo aggiornamenti stilistici e declinazioni locali cosicché, grazie alla forzata inerzia dei ritmi esecutivi, le innovazioni entreranno, matureranno e si amalgameranno senza forzature nel lessico contemporaneo.
Raccontandoci così che l’architettura gotica, e non solo quella, è stata un lento e graduale evento collettivo partecipato da tutta una comunità lungo l’arco temporale di intere vite, un processo corale in cui abitudine e tempo hanno avuto un ruolo determinante per l’assimilazione del manufatto sia nel tessuto urbano che nell’immaginario visivo degli uomini di quel tempo.
“…. in una società più chiusa, più organica e meno dinamica il tempo dell’architettura era necessariamente lungo; il cambiamento, il passaggio da una forma costruttiva all’altra, da uno “stile” all’altro, anche se qualitativamente apprezzabile, si riverberava nella città con un tempo molto lungo e la permanenza dei caratteri costruttivi e stilistici delle fasi precedenti era altrettanto lunga e, soprattutto, non in contrasto con il nuovo; o meglio il nuovo si omogeneizzava al vecchio che, a sua volta, perpetuandosi anche in presenza del nuovo stile, non era però in opposizione al nuovo […..] un fenomeno paragonabile allo scorrere di un fiume, che modifica e rimodella il proprio alveo di continuo, ad ogni piena erode una sponda e ingrossa l’altra, crea nuove anse, arrotonda le asperità delle pietre e le rende ciottoli, ma in un processo lento e continuo…. ” così scrive in un post, 'Il tempo dell'architettura', nel suo blog Pietro Pagliardini.
La storia dell’architettura diventa così un percorso quasi fisiologico dove la memoria storica dell’ambiente in cui gli umani, evolvendosi, interagiscono concorre a definire l’imprinting della specie mettendoci in grado di trasformare in patrimonio mnemonico stabile le caratteristiche visive di informazioni importanti per la nostra sopravvivenza quali sono quelle sulla figura parentale, il partner, i segnali di riconoscimento della specie, l’habitat, il luogo di nidificazione.
In particolare l’imprinting sull’habitat si forma in parallelo con l’apprendimento sociale secondo una pratica mutuabile dalla teoria del modeling, fondata su modelli da ricordare, da richiamare, da imitare nei quali identificarsi, sintesi di fattori individuali e fattori contestuali, ciò riguardando da vicino un fenomeno come l’architettura che definisce, nei termini concreti della materia, l’habitat come risultato dell’attività dell’uomo-animale sociale, frutto dell'apprendimento sia individuale che collettivo ed organizzativo.
Circa le modalità di questo apprendimento, “c'è un legame stretto tra lentezza e memoria, tra velocità e oblio – osserva Milan Kundera - [... ] Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all'intensità della memoria, il grado di velocità è direttamente proporzionale all'intensità dell'oblio” (“La Lentezza”, 1995).
Se la lentezza di ogni evento ne facilita il ricordo e viceversa la velocità ne induce la dimenticanza, si può ipotizzare che un’architettura ‘lenta’, che elabora il proprio linguaggio nei tempi lunghi di più vite, entri nella memoria storica delle collettività più profondamente di architetture ‘veloci’ quali sono oggi gli isolati exploit di archistar egocentriche in cerca di celebrazioni personaii?
Ovviamente, sarebbe troppo riduttivo e semplicistico ricondurre al solo concetto di ‘durata’ del tempo di realizzazione la ‘lentezza’ di un’architettura, il che obbliga a affrontare un dibattito più che mai attuale e, a mio parere, più che mai ambiguo: il confronto tra fast architecture e slow architecture. |