Hartmut Rosa, nel suo libro "Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda-modernità", 2015, definisce dromologica (neologismo inventato da Paul Virilio dall'etimo greco dromein, 'correre') la struttura sociale entro la quale viviamo.
Basata sulla interrelazione tra tempo, spazio e velocità, la società dromologica si concretizza in una costante lotta col tempo sempre più compresso, sospinto dai ritmi accelerati dello sviluppo tecnologico così da generare la continua sensazione della mancanza di tempo e la conseguente necessità di accelerare i propri ritmi per poter fare il maggior numero di cose nel minor intervallo temporale possibile.
In realtà ciò che varia non è lo scorrere del tempo, ma la percezione che di esso abbiamo, un tempo che oggi, nel terzo millennio, nell'era del digitale, della fisica quantistica, dell'indeterminismo ha un valore del tutto convenzionale, essendo lo spazio/tempo diventato un'entità non più dualistica, dipendente dalla modalità percettiva del soggetto e dall'attività del pensiero, rivelando la propria natura relativistica e probabilistica.
E mentre la realtà locale definisce il luogo e l'ora della nostra posizione fisica, la realtà globale li annulla nel momento in cui ci permette di delocalizzare un nostro doppio virtuale in ambiti lontani dalla nostra collocazione reale.
Per l'architettura questa nuova, alterata percezione del tempo e quindi dello spazio rappresenta un elemento di grande destabilizzazione, perché mette in crisi il senso stesso dell'architettura, il suo essere testimone della storia, la sua missione di creatrice di luoghi, l'architettura che segna, conserva, trasmette e cristallizza in volume solido con precise caratteristiche formali e stilistiche il senso del tempo, di quello passato, presente, futuro, tempo che si fa spazio, spazio che siamo stati abituati fino ad ieri a considerare un contenitore statico e predefinito nel quale un tempo matematico ed astratto scorre linearmente.
La permanenza dell'architettura è in conflitto con l'attualizzazione verso la quale ci sospinge la virtualità di un mondo (che Paul Virilio definisce della stereo-realtà) basato oggi oltre che sulla materia, principalmente sull'informazione, organizzata non più in modo piramidale, ma secondo una struttura rizomatosa.
"il rizoma - insegnano Gilles Deleuze e Félix Guattari - collega un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rimanda necessariamente a tratti dello stesso genere, mettendo in gioco regimi di segni molto differenti ed anche stati di non-segni. (…). Rispetto ai sistemi centrici (anche policentrici), a comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti, il rizoma è un sistema acentrico, non gerarchico e non significante…..", definizione diventata perfetta metafora della rete (così infatti funziona internet) dove l'informazione ignora le gerarchie, è costruita e fruita per ramificazioni, collegamenti, analogie in modelli multidirezionali dove nulla è statico, nulla è per sempre.
La velocità del cambiamento nel mondo dromologico richiede risposte immediate, efficaci ed opportune, generando un disagio a fronte di modelli mentali che sfuggono al controllo di un cervello umano condizionato da schemi funzionali secolari ed impreparato e discronico rispetto all'accelerazione dello sviluppo tecnologico e delle comunicazioni, ciò inducendo in risposta fenomeni restaurativi quali i vari movimenti slow iniziati già negli anni '80: slow food, slow city (nato da una costola di slow food), slow economy, slow house, slow brand…..
Ma se esiste una fast architecture, intesa come progettualità pura in grado di trasformarsi secondo bisogni contingenti nelle sperimentazioni soprattutto dell'architettura ecosostenibile o dell’architettura d’emergenza, non è scontato che possa esistere, di contro, una slow architecture.
Tornando alla domanda iniziale: l'architettura può essere slow? in che modo, in che senso?
Rem Koolhaas ci dice che l'architettura è "un goffo modo di guardare il mondo e un mezzo inadeguato per operarvi. Ogni progetto architettonico dura cinque anni; e non c’è una singola impresa, intenzione, ambizione o bisogno che rimanga inalterato nel vortice della contemporaneità. L’architettura è troppo lenta”: infatti dal 1999 lavora, con la sua unità di ricerca OMA, ad una ibridazione tra discipline non architettoniche, politica, editoria, media, sociologia e, secondo una sua logica retroattiva che parte dal risultato anziché dalla premesse, indica la 'cultura della congestione', di cui Manhattan è perfetto paradigma, come l’unica cultura possibile nel terzo millennio, all’interno della quale il progetto architettonico non pretende di modellare la realtà, ma tende alla sua ricerca sforzandosi di adeguarvisi in un processo del ‘fare’ che trova la propria ragione nel suo stesso ‘farsi’.
Oltre che lenta, l'architettura è ingombrante, pesante, permanente e potenzialmente eterna, né potrebbe essere diversamente perché la percezione umana del mondo è materica, fisica, corporea e ci si orienta nello spazio della realtà fenomenologica con il nostro corpo materiale, utilizzando per muoverci nello spazio accorgimenti selezionati da anni di evoluzione, fra i quali la visione prospettica.
Lo sa bene Filippo Brunelleschi quando, con le sue tavole prospettiche, governa e sottomette lo spazio architettonico modellandogli addosso la materia in una sorta di corpo a corpo tra l'inerzia della pietra, del mattone, del legno e l'intelligenza regolatrice della prospettiva lineare.
Dalla gabbia prospettica di Brunelleschi allo spazio/tempo del Movimento Moderno che, con Giedion, scopre la prospettiva quadridimensionale nel Cubismo e nell'architettura stratificata della Bauhaus, l'architettura sarà un adattamento continuo alle variazioni percettive e non sorprende che oggi, nell’epoca digitale, l'architettura riconosca la propria 'forma' nella 'in-formazione' e nei suoi mutevoli contenuti.
È l'architettura evocata da Koolhaas, flessibile, veloce, mobile, effimera, sperimentale, transitoria, riciclabile, in grado di adattarsi docilmente e rapidamente al variare del contesto (sociale, estetico, culturale, economico) contribuendo al tempo stesso a modificarlo in un circolo virtuoso che si autoalimenta.
Dall'insanabile contraddittorio tra la grevità della materia e l’incorporeità dell'informazione può scaturire la possibilità di definire un concetto di slow architecture che tenga insieme tutte le possibili interpretazioni, anche coinvolgendo ambiti più allargati.
É quello che propone Roberto Grandicelli nel suo saggio, "A proposito di Slow Architecture. Discorsi sull’architettura e sul tempo", nel quale fornisce un personale point of view sulla definizione di slow architecture attingendo ad un suo patrimonio culturale estraneo, almeno dal punto di vista professionale, al campo strettamente architettonico.
Partendo infatti dal termine slow e ripercorrendo il solco tracciato nel mondo del branding laddove allo slow brand si fa seguire lo human centered branding, si può rintracciare un percorso, uno schema mentale concettualmente sovrapponibile a quello che potrebbe condurre ad una definizione di Slow Architecture.
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