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L'Autoritratto (parte I)
di Vilma Torselli
pubblicato il 9/04/2007
L'autoritratto come "il punto più profondo di una tendenza essenziale nell’arte occidentale moderna: l’attenzione alla psiche del soggetto rappresentato…..



"Il fotografo ritrattista è un artigiano dell'anima, un cannibale della retina in presa diretta con la pittura…… “ (Fabiana Cutrano)

Gli indiani d'America, e come loro anche altre civiltà arcaiche, temevano che la fotografia potesse rubare l’anima di chi veniva fotografato, e parlando di ritratto l’affermazione appare assai più credibile di quanto si possa a tutta prima ritenere, e non solo per gli indiani d’America.

Il volto, lo sguardo, l’espressione, le caratteristiche fisiognomiche sono infatti importanti indizi dell’interiorità del soggetto, che viene attraverso di essi rivelata e messa a nudo ed in un certo senso espropriata nella sua componente psicologica più profonda, nella sua anima, appunto.

E se l’anima è di per sé indefinibile, ancorché immateriale, essa tuttavia costituisce la differenza fondamentale tra la pura rappresentazione documentale di un soggetto ed il suo ritratto, affermando in un certo senso la sua presenza proprio attraverso il suo negativo: se è infatti difficile stabilire quando un ritratto ha un’anima, è invece relativamente semplice accorgersi di quando non ce l’ha.

Ma un buon ritratto deve ‘rubare l’anima’, e l’anima rubata realizza una promessa di immortalità che fa del ritratto un talismano di incontrastabile potere seduttivo, "un’assicurazione contro la scomparsa definitiva, uno strappo al silenzio della morte" (Letizia Gilardino, "Catturare l'immagine nello specchio").

L’autoritratto è qualcosa di assai diverso dall’essere il ritratto di sé stessi, poiché, accanto alla capacità introspettiva, esso richiede il coraggio di guardarsi dentro in quella che Alberto Boatto definisce una “protratta e impietosa inchiesta condotta fin negli strati riposti del proprio essere” (Alberto Boatto,“Narciso infranto. L'autoritratto moderno da Goya a Warhol”, 2005)

Perché attraverso l'autoritratto si attua un processo non solo cognitivo, ma anche emozionale e relazionale del tutto inedito indotto dallo sdoppiamento tra la parte che osserva e quella osservata e dalla coincidenza tra l'io soggetto-spettatore e l'io oggetto-rappresentato.
In questa situazione l'interesse di tipo ottico-realistico viene inevitabilmente sostituito dall'attenzione per tutto ciò che accade nella sfera dell'interiorità del "soggetto senziente", in rapporto empatico con ciò che percepisce, "l'oggetto sentito", nella fattispecie coincidenti.
Sì, l’autoritratto – scrive Flavio Caroli - è il punto più profondo di una tendenza essenziale nell’arte occidentale moderna: l’attenzione alla psiche del soggetto rappresentato….. “
Assai più del ritratto, l’autorappresentazione, che affronta il nodo di uno dei rapporti più problematici della psicanalisi, necessita di una capacità di indagine che spesso trova tenace opposizione nel rapporto delicato e talvolta controverso che ciascuno di noi ha con la propria immagine (allo specchio, in pittura, in fotografia….) e con la propria identità.

Forse proprio per questa complessità di significati, l’autoritratto è una stimolante sfida che quasi tutti gli artisti hanno raccolto, dall’età preromanica in cui l’amanuense inseriva talvolta nei codici miniati la propria immagine, al medioevo quando scultori o pittori si autorappresentavano all’interno della propria opera, al Rinascimento, nel quale esso raggiunge la maggior diffusione, si pensi a Dürer, il Parmigianino, El Greco, proseguendo per Goya, Courbet, Rembrandt che esegue una settantina di autoritratti documentando la sua intera vita, giungendo a Van Gogh, Picasso, Munch, Boccioni, De Pisis, Dalì, Clemente, De Chirico, Ligabue, Afro, Balla, Beuys, Funi, Kokoschka, Léger, Matisse, Manzù, Pistoletto, Rosai, Roualt, Sironi, Turcato, Vedova, Vasarely, Warhol . ……..

L’autoritratto ripercorre e rispecchia le tappe della formazione dell’Io, portando in superficie e rielaborando le ansie correlate al senso della nostra identità. In tal modo si configura come un racconto autobiografico, una confessione, una interrogazione, un gioco speculare in cui si prende coscienza della dimensione fisiognomica del proprio io e di un’immagine corporea non sempre coincidente con quella mentale, un’occasione per evidenziare la fragilità del concetto del sé rispetto ai correnti meccanismi di identificazione.
Esso diviene così una esplorazione del privato e dei sentimenti attraverso la corporeità, ciò che fa scrivere a Frida Kahlo, più volte autoritrattasi: “Dal momento che i miei soggetti sono sempre stati le mie sensazioni, i miei stati mentali e le reazioni profonde che la vita è andata producendo in me, ho di frequente oggettivato tutto questo in immagini di me stessa, che erano la cosa più sincera e reale che io potessi fare per esprimere ciò che sentivo dentro e fuori di me”.

Scrive Antonio Natali in occasione della mostra sulla ‘Collezione d’autoritratti di Raimondo Rezzonico’ (Genova, 2006) : “L’artista sceglie se stesso come modello; e ritraendosi accetta il gioco analitico che ognuno, con diversi gradi di competenza, praticherà sulla sua carne viva. La postura del corpo, lo scatto del volto, i lampi degli occhi, l’attitudine affettiva, il corredo d’oggetti: tutto sarà della sua effigie passato al vaglio. E l’esercizio d’una lettura introspettiva godrà di mille varianti, venendosi in esso a sommare le peculiarità psicologiche dell’artista e quelle dell’esegeta”.

Ed è la propria carne viva, dilaniata e sanguinante, smembrata con autodistruttivo furore che ci mostrano Lucian Freud, Egon Schiele, Oscar Kokoschka, Francis Bacon, Maurice de Vlaminck, Edvard Munch, Antonio Ligabue, è la propria carne viva, freddamente sezionata con lucida autocoscienza come su un tavolo anatomico, che espongono Chuck Close, Amedeo Modigliani, Frida Kahlo ……..

L’autoritratto, dunque, va direttamente all’origine dell’io, e nel caso della fotografia ci va nel modo più diretto, congelando l’attimo temporale di un’immagine allo specchio ed instaurando un confronto spesso ansiogeno tra il sé osservato ed il sé immaginato, due differenti identità che convivono talvolta all’insaputa l’una dell’altra.
Augusto Pieroni parla dell’autoritratto fotografico come “pratica obliqua”, riferendosi “al gioco di specchi Rembrandtiano che fa di questo genere uno strumento di autoanalisi e di terapia per riportare ad unità, per quanto aperta e problematica, la molteplicità di identità che l'uomo amministra in sé e per gli altri. La fotografia ha arricchito questo filone grazie al dispositivo lente-otturatore che istiga a mettere in posa l'Ego, a sceneggiarlo, offrendo una ben conscia bugia in pasto al tradizionalmente sincero e trasparente mezzo fotografico.…” ("(Auto)ritratto: fra rimeditazione e rimediazione dell'identità fotografica")
Se è vero che numerosi pittori si sono autoritratti nell’atto dell’esecuzione dell’opera muniti degli strumenti distintivi del loro mestiere, pennelli e tavolozza, come Dalì o De Chirico o Rockwell Kent, che propone una divertente versione della triangolazione specchio-artista-dipinto, credo che siano assai di meno i fotografi che si sono autoritratti, ma tra essi percentualmente molti di più quelli che lo hanno fatto davanti ad uno specchio con la macchina fotografica bene in evidenza, ad affermazione chiara ed inequivocabile di una identità simbiotica con lo strumento: ciò che lo specchio rimanda acquisisce così un marchio di garanzia grazie all’occhio meccanico dell’obiettivo, presenza imparziale ed asettica che certifica che l’autore è proprio lui e rende l’autoritratto, tanto scontatamente quanto falsamente, sincero e trasparente.

* articolo aggiornato il 10/10/2013
link:
L'autoritratto al tempo di instagram
Silvio Tomasoni, "Oltre lo specchio"


pagine 1 - 2


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