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L'Autoritratto (parte II) di Gianmarco Chieregato
e Vilma Torselli
pubblicato il 29/12/2008 |
La macchina fotografica co-protagonista del ritratto
allo specchio rappresenta una sorta di filtro nei confronti
di ogni eccesso di soggettività, una scelta dettata dalla
volontà di prendere le distanze dalle emozioni che l’osservazione
di sé tende inevitabilmente a scatenare, forse in maggior
misura in chi ben conosce, per professione ed esperienza, le
possibilità disvelatrici dell’obiettivo.
Una scelta
che tuttavia non esonera dalla necessità di intraprendere
su di sé e sulla propria interiorità una profonda
‘speculazione’, termine che, non a caso, deriva
etimologicamente dal latino ‘speculum’, lo specchio,
per antonomasia strumento di ‘riflessione’ (anche
questo un termine di duplice significanza) in grado di restituirci
un’immagine invertita (reciproca o riflessa, appunto)
e quindi ambigua perché diversa da quella che gli altri
percepiscono di noi.
E lo specchio, assunto nel tempo indifferentemente come simbolo
di verità o di inganno e quasi sempre come metafora di
qualcosa d’altro, complice indispensabile di ogni autoritratto,
mezzo rivelatore del nostro lato oscuro, custode dell’identità
cognitiva, diventa nell’autoritratto il vero soggetto
iconografico, in grado di catturare e mostrare per via indiretta,
grazie alla mediazione dell’obiettivo, l’immagine
a rovescio dell’autore mentre, da fuori, posa uno sguardo
estraneo su di sé.
Ma non è indispensabile addentrarci nella complessa fenomenologia
della riflessione, e forse non è nemmeno necessario scomodare
la psicanalisi, la fisica, la neurologia, il tema del doppio,
la metafora di Perseo o il mito di Narciso, forse è sufficiente
pensare, come suggerisce argutamente Umberto Eco, sollecitato
sull’argomento, ad uno specchio comune o anche a quello
che abbiamo tutti sopra il lavabo, accettato nella sua stupidità
di specchio da lavabo perché il gioco dei rimandi si
compia ed abbia inizio, in un ambiguo incrociarsi di riflessi,
un affascinante viaggio alla scoperta della propria identità.
E' l'opinione di un fotografo, Gianmarco
Chieregato, che di ritratti se ne intende per aver immortalato,
nella sua carriera professionale, moltissimi volti famosi
della società contemporanea.
Dice, con assoluta sincerità e con sintetico pragmatismo,
che “L’autoritratto è quella cosa che
quando ti viene male non puoi arrabbiarti con nessuno….e
se lo butti nessuno si offende” e che, dovendosi
autoritrarre, preferirebbe farlo attraverso un oggetto o un’atmosfera
che in qualche modo parlino di lui: è quello che si dice
cripto-autoritratto o pseudo-autoritratto, un’immagine
che inequivocabilmente dichiara in modo esplicito l’intenzione
dell’artista di ritrarsi, anche in assenza di elementi
grafici o pittorici di per sé collegabili alle sue reali
fattezze.
In effetti il transfert come spostamento dei sentimenti e delle
emozioni al di fuori del soggetto senziente, è largamente
usato nelle arti visive, mentre in fotografia è decisamente
meno usuale.
Ma a ben guardare, Cartier-Bresson che si ritrae con la macchina
fotografica davanti al volto, che altro fa se non raccontarsi
attraverso un oggetto, in questo caso a valenza fortemente simbolica,
che rappresenta un’espansione del suo stesso io?
Facendo tabula rasa di tutte le considerazioni e le teorie che
ruotano attorno al tema dell’autoritratto, dice Gianmarco
Chieregato, esiste anche la possibilità di un approccio
alla propria immagine più disimpegnato, sia prendendo
in esame l’ aspetto ludico ed ironico dell’operazione,
un “tale e quale” senza nessuno tentativo di cercare
di sembrare interessante o bello, niente pose, niente Rembrandt,
sia assecondando la possibilità di scivolare verso la
pura vanità cedendo alle lusinghe dell’autocelebrazione
e delle imperfette illusioni sensoriali.
Da fotografo, Gianmarco Chieregato individua la determinante,
fondamentale differenza tra l’autoritratto in pittura
e quello fotografico nella possibilità, nel caso del
primo, di una maggior meditazione e di un approccio più
pensato, non fosse altro che per le diverse tecniche esecutive
e per i tempi lunghi della pittura rispetto allo scatto fotografico,
che invece ferma l’immagine in tempo reale. E se autoritratto
(e ritratto) significa in buona parte ‘cogliere l’attimo’
e rappresentarlo esattamente per quel che è, hic et nunc,
magari imperfetto, mosso, sgranato, scomposto, con la consapevolezza
che non si ripeterà più uguale, è evidente
che la fotografia, mezzo che si presta più di altri a
fermare il fluire temporale, lo fa in termini letterali, bloccando
in una frazione di secondo situazioni fuggenti e labili, mentre
la pittura compie sempre ed inevitabilmente una riflessione
sulla realtà, osservata nel divenire dei tempi della
sua riproducibilità.
Ma, parafrasando Jean-Luc Nancy, può un autoritratto
essere “solo una foto d’identità, una
foto segnaletica” senza toccare “un’intimità
che si porta in superficie”, sempre e comunque? |
link:
Il ritratto |
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