"L'art Brut ha in sé tutti
gli elementi che richiede un'opera d'arte: una bruciante tensione
mentale, invenzione senza freni, libertà totale. Pazzi?
Certamente. Potreste concepire un'arte che non fosse un poco
folle? Nietzsche diceva: -noi vogliamo dell'arte che danzi."
Jean Dubuffet (1901-1985) è una delle personalità più
interessanti dell'arte europea del periodo postbellico, per
la complessità del suo linguaggio insieme colto e primitivo,
intellettuale ed istintivo, coerente ed imprevedibile.
Animato da una insaziabile curiosità e da una vastità
di interessi che lo porta a sconfinare nei campi più
disparati dell'arte visiva, questo artista ecclettico è
attratto dalle manifestazioni grafiche dei popoli primitivi,
dalla produzione istintiva e spontanea degli artisti di strada,
dei graffitisti, dei bambini e dei pazzi: lo interessano le
persone prive di formazione culturale, che vivono ai margini
della società, autodidatti, estranei ai circuiti dell'arte
tradizionale, dal linguaggio figurativo personale che esprime
un proprio mondo dell'immaginario, talvolta sconcertante,
riconoscendo alla tensione emotiva che si accompagna alla
creatività febbrile del vero artista la possibilità
di rompere i contatti con la realtà e portare alla
follia, stato mentale favorevole alla creazione artistica.
Innumerevoli sono le tecniche inventate ed impiegate da Jean
Dubuffet per esprimere il vasto repertorio della sua attività
creativa, svolta per grandi cicli, nella quale si possono
identificare echi surrealisti, per la componente onirica e
l'automatismo, cenni astrattisti, richiami netti all'informale
di Fautrier, elaborazione personale di un linguaggio desunto
dalle manifestazioni non colte dell'arte figurativa, complesse
esperienze volte a sondare le possibilità della materia
e dell'espressione spontanea, che lo condurranno all'informale
materico.
Applicando tecniche inusuali e personali, realizza i suoi collages
con i materiali più impensati, giornali, elementi vegetali
e animali, ali di farfalla, il risultato è una haute pâte di grande
pregnanza materica, dove il segno affonda deciso nel colore
spesso. Nel graffitismo Dubuffet dispiega la sua pennellata fresca e fluida,
la sua esuberanza cromatica giocata sui toni decisi dei colori
primari, blu, giallo, rosso, aggressivi, violenti, urlati in una pittura di grande maestria, colta, sapiente, che pure
si muove con naturalezza nel solco di un'arte primitiva, apparentemente
rozza e barbara.
Nel 1945 Jean Dubuffet conia il termine "Art Brut",
teorizzata poi nei suoi "Cahiers de l'Art Brut",
per definizione un'arte dei non-acculturati, come la definisce
anche Renato Barilli, che sfugge ai condizionamenti sociali
e al conformismo borghese, al di fuori della tradizione
e delle mode, al di fuori del sistema delle arti, delle
scuole, delle gallerie, dei musei ed anche delle convenzioni
estetiche, genuina ed immediata, che recupera il substrato
primitivo dell'arte arcaica, con selve di segni e disegni
casuali, incontrollati e liberi.
Questo "Mire G21 (Kowloon)", un acrilico su carta, può
considerarsi antesignano di tutta quella che sarà
la cultura del graffitismo metropolitano nel mondo, in delicato
equilibrio tra un'arte di strada, che proviene dal basso
e, in un certo senso, dal passato, e l'espressione cosciente
di un intellettuale che ha bisogno di creare nuovi lessici
per narrare a modo suo un grande racconto popolare.
link:
Art Brut
L’importanza del disegno infantile in Twombly e Dubuffet
Hans Prinzhorn
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