In una intervista nel contenitore RAI di prima serata, ‘Virus’, puntata del 25/04/2014, condotto da Nicola Porro, un noto fotografo italiano, Giovanni Gastel, lancia un annuncio choc: la fotografia è morta.
Lo fa all’interno di un vivace racconto sulla sua vita professionale e anche privata, sul celebre zio, il regista Luchino Visconti, sull’atmosfera ricercata ed estetizzante che si respirava tra le mura domestiche, confermando anche con disarmante sincerità che il suo lavoro non solo lo ha reso famoso, ma anche ricco. L’intervista per intero si può vedere qui.
La conclusione a cui Gastel perviene è che la fotografia convenzionalmente intesa è destinata a morire, sopravviverà solo nelle forme legate alle più recenti tecnologie, dove essa trae senso proprio dalla facilità del mezzo, dall’imperfezione del risultato, dall’improvvisazione, dalla mancanza di un progetto visivo, una fotografia del presente, dove ciò che conta è il ‘qui e ora’ e la qualità non è richiesta, una fotografia che, come scrive James Estrin, rappresenta “una merce di scambio, spesso di cattivo gusto, nelle interazioni sociali e un modo per spiare ancora più da vicino negli ombelichi degli altri”.
Coerentemente con la natura oculocentrica della postmodernità (così la definisce Gillian Rose, “Visual methodologies” 2001) determinata dal fatto che gli individui interagiscono prevalentemente attraverso esperienze visuali costruite e condivise, questa fotografia dell’iconografia consumistica e del kitsch usa e getta si avvale di tutte quelle “protesi” di ultima generazione (smartphone, computer ecc.) che compensano la sparizione della naturalezza dei rapporti con l’alta velocità di comunicazione del selfie di massa e di varie tipologie di social (Facebook, instagram, Flickr, Hipstamatic ecc).
Senza contare il recente fenomeno delle Stock Images, banche d’immagini (GettyImages, iStockphoto ecc.) che vendono a poco prezzo la totale copertura degli eventi più importanti fornendo 50 milioni di immagini per tutte le occasioni, che incentiva il mercato di una sorta di pret-a-porter dell’immagine preconfezionata e sempre pronta all’uso, senza dover ricorrere al fotografo professionista.
La parte nobile della fotografia, conclude Gastel, verrà delegata (o relegata) alla sola fotografia autoriale, nei termini e nel linguaggio in cui il fotografo/autore/artista sceglierà di esprimersi, adottando le modalità anche tecniche che più preferisce.
Tra le quali anche il famigerato photoshop che, ci dice Gastel, “non è una macchina da ritocco, è una immensa macchina creativa”, ed aggiunge che la funzione che la storia ha delegato alla fotografia fin dalla sua nascita, la rappresentazione del reale, “la prenderà il computer”.
“[…. ] nelle tecniche e nei fenomeni che sono alla fine del loro sviluppo e che stanno scomparendo riluce per un’ultima volta un senso che anticipa ciò che verrà addirittura dopo la causa immediata della loro obsolescenza” scrive Elio Grazioli in un suo articolo, “Walter Benjamin e la fotografia“ […..] Forse oggi la fotografia è in questa stessa situazione, resa obsoleta dal digitale e dall’era detta postmediale [.…..] sta per essere sostituita da altro, digitale in senso esteso: Internet e postinternet.”
Questa evoluzione, che secondo Grazioli “probabilmente è un sintomo di un cambiamento importante che la fotografia rende manifesto” avverte che
la nemesi sta per compiersi: ciò che è toccato all’arte figurativa all’inizio del ‘900, messa in crisi da una giovane tecnologia, la fotografia, che improvvisamente svuotava di significato la sua funzione mimetica e riproduttiva, tocca ora alla fotografia stessa.
Allora, l’arte vendette cara la pelle, reinventandosi negli inediti abiti dell’astrattismo, dell’informale, dell’espressionismo, nel tentativo di rappresentare ciò che la macchina non poteva fotografare, le passioni dell’animo umano, dando vita ad uno dei secoli più tormentati e rivoluzionari di tutta la sua storia: ribaltando dalle fondamenta ed inventandosi da zero nuovi concetti estetici, convenzioni formali, criteri di giudizio, “l'arte andò via via distaccandosi, per differenziarsi, dal concetto classico della mimesi, e si costituì in proprio una morfologia e un lessico senza radici naturalistiche”, così scrive nel 1989 Carlo Giulio Argan.
La fotografia non pare possedere, oggi, la stessa irriducibile vitalità, quella sorta di consapevolezza e di fiducia nella propria identità che guidarono l’arte alla rinascita. Forse perché ha alle spalle una storia relativamente breve, forse perché racchiude il concetto di mutamento nel proprio stesso DNA ed è perciò più duttile (vorrei dire rassegnata) nell’accettare l’idea di un inevitabile declino legato alla caducità della sua natura ad alta componente tecnologica, con l’idea di obsolescenza che questo comporta.
“forse nella fotografia si manifesta il cambiamento di ciò che sembra di perdere: il reale cambia, la sua stessa concretezza, la sua sostanza, insieme al nostro senso di realtà e ai nostri sensi - scrive ancora Grazioli - Cambia il senso del passato, il senso dell’attesa, la nostalgia stessa, insomma tutto ciò che appartiene fin dall’inizio alla fotografia”.
In questa situazione, ci dice Gastel, dovrebbe emergere l’autore, il singolo, l’individuo con una sua soggettività di persona portatrice di intenzioni e di capacità del tutto peculiari ed uniche.
Proprio il concetto di autorialità è questione nodale in tutto ciò che riguarda le scienze umanistiche e quindi l’esistenza di un soggetto determinato ed individuabile la cui opera, caratterizzata da unicità ed originalità, sancisce il riconoscimento della capacità individuale a creare qualcosa di significativo e nuovo, anche in termini di etica e di socialità.
La nascita del copyright, una forma di protezione oggi sempre meno efficace a causa della libertà di accesso fornita da internet, è legata a questo concetto dell’autorialità, termine che, trovando la sua espressione più autorevole nel tardo romanticismo, subisce nel tempo significative varianti a seconda del periodo storico-culturale per la continua metamorfosi dei rapporti reciproci fra i principali protagonisti della comunicazione: il messaggio, il mittente, il destinatario.
Ma Roland Barthes in un suo celebre saggio del 1968 sulla rivista Manteia, “La mort de l’auteur”, ci dice che l’autore altro non è che l’incarnazione del borghese moderno, l’incarnazione dell’ideologia capitalista e che, come tale, è morto, che la sua conoscenza nulla aggiunge al significato dell’opera, che è solo un mediatore tra il racconto e il lettore, non fa che ricombinare elementi preesistenti indipendenti dalla sua storia personale in un ‘qui ed ora’ privo di intenzionalità, nessun pensiero è originale in senso assoluto, è un prodotto dell’evoluzione dei pensieri presenti da prima che lo scrittore esistesse.
Le affermazioni di Barthes sulla morte dell'autore sono figlie del loro tempo, della ribellione antiautoritaria del '68, e danno l'avvio alla decostruzione delle teorie autoriali a favore della collettivizzazione di qualsiasi produzione artistica, la cui esistenza è possibile all’interno dei contesti sociali in cui di fatto nasce, dei quali non può fare a meno e dai quali deriva la propria attribuzione di senso.
Concetto profeticamente attuale in questa epoca di condivisione e di partecipazione collettiva, l’epoca di internet, dei blog, dei forum e dei social, dove il potere non è più nelle mani dell’autore, ma del fruitore che legge, critica, contraddice con lo stesso diritto di parola dell’autore, anche modificandone o integrandone il discorso.
Tutto ciò che per secoli abbiamo pensato della pittura e dei pittori, a partire dall’erosione del concetto di unicità inaugurato da Benjamin, è stato revisionato criticamente operando un ridimensionamento del concetto di autorialità volto anche a contrastare un sistema dell’arte (dal mercato al collezionismo alla critica) totalmente commercializzato, antidemocratico e gerarchizzato (è l’idea di Boris Groys, “Art Power”, 2012) nel quale la firma dell’autore ha finito per sostituirne l’opera.
E il prezzo da pagare per questo cambiamento di rotta è la morte dell’autore.
Il ritorno all’autorialità, nella fotografia come in altre discipline, dalle arti visive alla letteratura, appare quindi un’operazione in controtendenza, restaurativa, regressiva ed anacronistica, inadeguata al mutamento socio-culturale che spinge invece ad andare oltre il singolo, verso un’estetica della relazione.
La sfida sta nel capire se/come sopravviverà il linguaggio, fino ad oggi indissolubilmente legato all'autore.
Ricordando Mario Costa quando scrive che "le neo-tecnologie non sono più estensioni o protesi, nel senso mcluhaniano, ma estroversioni separate dei funzionamenti di base dell'umano che tendono progressivamente a farsi autonome e sé-operanti.” (“Dimenticare l’arte. Conversazione con Mario Costa” di Maurizio Bolognini),
la frase di Gastel va forse aggiornata in questi termini: il fotografo è morto, la fotografia sta benissimo. |