L’arte moderna ha affrontato ed interpretato il tema del ritratto in molti modi differenti, passando per la fisiognomica, la psicologia, la psicanalisi, tracciando dapprima percorsi autonomi ed individuando infine nel rapporto fra arte e psicologia l'asse portante della nostra cultura occidentale non solo visiva.
Nonostante l’enorme numero di pittori che si sono misurati con questo genere, è un fotografo, Richard Avedon, che affronta il tema del ritratto in un’opera monumentale quale "In the American West”, a sintetizzare mirabilmente il concetto del ritratto moderno come interazione, confronto, scambio, identificazione, prevaricazione, dichiarando nella prefazione del suo libro: "Per portare a compimento l’immagine un fotografo ritrattista dipende da un’altra persona. Il soggetto immaginato, che in un certo senso sono io, deve essere svelato in qualcun altro”.
Riscoprendo la centralità esistenziale del proprio esistere e contemporaneamente l’inderogabile necessità di guardare l’altro da sé per conoscere sé stesso, si attiva un confronto drammatico e talvolta doloroso nel quale “questo scambio implica manipolazioni, sottomissioni. Si arriva all’arroganza, e si agisce in base a ciò che raramente rimarrebbe impunito nella vita ordinaria” in un corpo a corpo intellettuale spesso conflittuale dove l’artefice svela se stesso in un altro "disposto a partecipare a una finzione di cui probabilmente non è a conoscenza”, coinvolgendolo a sua insaputa in una rappresentazione che ha per i due protagonisti finalità diverse.
Oscar Wilde dice che ogni ritratto è un autoritratto inconscio dell’artista per trasferire tracce della propria personalità nell’opera, ben prima di lui, Leonardo da Vinci parla di “automimesis”, e poi Raffaello, Dürer , Van Gogh, Gauguin, Rembrandt, Bacon, Freud……. hanno ben presente come il ritratto sia in realtà una grandiosa, narcisistica autorappresentazione.
Marcel Proust nella “Recherche” colloca l’origine dell'attività inconscia nella memoria involontaria dove i ricordi “lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’edificio immenso del ricordo” (Marcel Proust, La strada di Swann). E’ da lì che peschiamo i ricordi impossibili di fatti mai accaduti, un mondo a parte dove due artisti possono incontrarsi e dialogare al di fuori di tutte le regole della verosimiglianza, della credibilità, della realtà e riconoscersi come parti complementari di uno stesso symbolon.
Il volto dell'altro ha il compito di interpretare l'interiorità dell'artefice che si affaccia sul proprio inconscio, in un viaggio empatico e quasi medianico di elaborazione della propria esistenza. La propria e nessun’altra, perché il ritratto, qualunque sia e chiunque rappresenti, lungi dall’essere un semplice mezzo espressivo descrittivo e illustrativo per documentare l’aspetto fisico di un’altra persona, racconta in realtà una cruenta battaglia che ha come premio l’immagine che di noi stessi vogliamo restituire al mondo, una lotta in cui la personalità dell’artista e quella del soggetto ritratto sono due anime in competizione che cercano di prevaricarsi reciprocamente per esprimere ciascuna sé stessa.
Quando Silvio Tomasoni decide di ritrarre Cesare Pavese sa qual’è lo scotto da pagare, lo conosce, lo accetta, si è già più volte confrontato col tema del ritratto e dell’autoritratto, sa che sarà un’avventura imprevedibile con finale a sorpresa e quando dice “Il suo volto è sempre stato per me un po’ come uno specchio” sa anche che dietro quello specchio si possono celare verità scomode, aspetti psicologici ignorati, paure represse……
Simbolo ambivalente di verità o di inganno e quasi sempre metafora di qualcosa d’altro, rivelatore del nostro lato oscuro, custode dell’identità cognitiva, lo specchio nel quale è pronto a riflettersi non lo spaventa.
Come un segugio in cerca di tracce, dà inizio al rapporto (ma forse sarebbe più giusto chiamarlo dialogo) con Pavese dapprima leggendo le sue poesie, convinto che “la letteratura e la poesia superano le barriere del tempo e uno scrittore anche dopo morto continua a parlarci con un dialogo molto intimo”, poi si documenta attraverso le sue biografie, il diario, le lettere, le fotografie, visita i luoghi in cui ha vissuto nell’infanzia, visita la sua tomba nel cimitero di Santo Stefano Belbo, infine Torino e l’Hotel Roma, scoprendo progressivamente quante affinità lo leghino a questo personaggio un pò scomodo dalla personalità psicologicamente complessa.
Fino a che Pavese diventa una presenza usuale, un confidente, un amico nel quale riconoscersi, col quale condividere pensieri ed abitudini e col quale, dice Tomasoni, “mi sono ritrovato spesso in un bar a scrivere magari con un dolore da stendere ad asciugare su un taccuino”.
“Avevo eseguito questi ritratti a mano sciolta senza preoccuparmi delle imperfezioni, alcuni sembrano un poco delle caricature … e forse così ho fatto emergere ciò che di Pavese era dentro di me”, pescando in ricordi immaginari di un passato comune mai vissuto, nell’edificio immenso del ricordo dove custodiamo tutto ciò che non è mai successo, e ritrae il suo interlocutore nelle sue espressioni più caratteristiche come se lo avesse davanti in carne e ossa, lo sguardo miope difficile da catturare, una certa severità che preclude ogni sorriso, i tratti del volto decisi e spigolosi, il naso importante, gli immancabili occhiali……….
Il risultato sono questi ritratti a matita su carta, forti, austeri, essenziali, che subito stabiliscono un rapporto di rispetto, di confidenza e di fiducia con un uomo forse troppo solo o troppo deluso o troppo frustrato, sappiamo tutto della sua vita, sappiamo poco della sua anima, nulla sappiamo delle sue ultime ore nella stanza fatale, la n.346 dell’Hotel Roma di Torino.
Quel che sappiamo è che l’arte ha la possibilità di aprire dei varchi e lasciar defluire memorie involontarie, come appunto le definisce Proust, le sole in grado di restituire ricordi soggettivi emotivi e sensoriali, brandelli di un tempo immobile, perduto o forse mai esistito, nel quale si realizza la simbiosi perfetta tra il narratore e il suo esegeta.
Lasciandoci con il dubbio di non sapere chi dei due abbiamo incontrato realmente. |