Perché una cosa venga vista come arte, c’è bisogno di una netta separazione fra chi la fa e chi la vede, fra artista e pubblico.
Questa separazione – principalmente di ruoli - è anche una distanza: raramente chi la vede potrà, pur aspirandolo, raggiungere lo status di chi la fa perché il sistema (dell’arte) normalmente è quanto di meno permeabile possa esserci. È un regno le cui soglie d’accesso sono guardate da custodi occhiuti ai quali è demandato per convenzione il compito di selezionarne gli ingressi.
Ma questa separazione-distanza ha anche un altro significato. Nel mondo della spettacolarizzazione dell’arte, dello spostamento coatto di grandi masse di visitatori da una mostra ad un’altra, da un museo ad un altro, da un contenitore ad un altro, la cosa-arte è confezionata e smerciata come un prodotto di consumo rispetto al quale il pubblico è esattamente quello che la parola vuol intendere: unicamente pubblico acquirente e consumatore, chiamato, blandito, invogliato allo stesso modo che per un detersivo o una saponetta, a consumare, ma dal quale mai ci si aspetterebbe – e mai di fatto avviene - che aspiri a nient’altro che a quel ruolo.
Il pubblico, insomma, anche nell’arte deve stare al suo posto. Con buona pace dei dettati delle avanguardie di ieri e oggi di tutti coloro che si aspettano messianiche quanto evanescenti “liberazioni” dal web.
Il fatto è, mi pare, che in quest’era post- o forse sarebbe meglio dire in quest’era “orfana”- non solo delle grandi utopie progressive ma anche, a rigore, di un’alternativa reale e credibile all’attuale assetto economico-tecnologico ( e quindi a un’idea di mondo come “il migliore dei mondi possibili”), la possibilità stessa di un’esperienza artistica che non avvenga al di fuori della sua dimensione speciata e sostanzialmente ininfluente dal punto di vista della ricaduta culturale è oggi pressoché irrilevante. L’estetizzazione globale, persino nelle sue componenti spontanee e social, si rivela infatti ogni giorno di più inconsistente e futile, ma soprattutto transitoria, non solo perché non produce profitto come l’arte veicolata sistemicamente, ma soprattutto per via della sua stessa natura di evento o oggetto effimero, impermanente.
L’arte deve intendersi dunque superata, come diceva Hegel o sparita, come sosteneva Baudrillard? Né l’uno né l’altro, perché finché genererà profitto, essa continuerà a esistere come qualsiasi altro business, come le armi, il porno, i futures e i derivati. Quindi, tranquilli tutti! Vi si spianeranno ancora carriere fruttuose, persino col beneplacito del pubblico, che continuerà a stare al suo posto, senza sapere di non avere parte alcuna in quello che gli viene propinato e, forse, neanche di avercela, un’arte che lo faccia realmente sentire come ancora ci si sente dentro un tempio greco o una cattedrale gotica, in una piazza rinascimentale o sotto un soffitto del Tiepolo, nella Stanza della Segnatura o dentro la Rothko Chapel. |