Accade
così che in molti centri storici si osservi oggi il paradosso per cui un
territorio di forte valenza identitaria per comunità che non lo 'abitano'
più, viene 'posseduto' da individui che non hanno alcun rapporto cosciente
con quello che in effetti è un luogo del tutto estraneo al loro vissuto
culturale, del tutto inadeguato a soddisfare un corretto rapporto di interrelazione
tra le caratteristiche morfologiche dell'habitat e le esigenze, le abitudini,
i bisogni, la memoria, la storia, il "sistema rappresentazionale" dei
suoi occupanti. Il che non impedisce uno strisciante processo di colonizzazione
e di occupazione spontanea, anarchico e ribelle ad ogni razionale pianificazione
urbanistica, sfuggente al controllo della comunità nativa che, per diritto
acquisito, ritiene di 'possedere' il luogo pur non 'abitandolo' più, in
quanto depositario di una memoria storica di pertinenza esclusiva: è questo
l'elemento scatenante di una generalizzata ansia da riconversione per la collettività
che tenta di ri-occupare, riqualificandoli, spazi ai quali non è disposta
a rinunciare, non importa se attribuendo loro funzioni banali e scarsamente polarizzanti,
in rapporto passivo con realtà urbane più forti. Così
che, venute meno le utenze per le quali il centro storico si è plasmato
in centinaia di anni di successivi adattamenti dello schema urbanistico, si cerca
di trovarne di nuove inventandole da zero, in genere ignorando le vere esigenze
e le nuove vocazioni basate su un reale ed irreversibile processo di modifica,
imprevedibile solo fino a pochi anni fa, verso il quale si oppone resistenza poiché
mette in crisi linguaggi consolidati e sacre identità nazionali, turbando
equilibri profondi anche di carattere individuale.
E' innegabile che il futuro delle nostre città vada
verso una fluida società multietnica fatta di comunità
diverse che si pongano auspicabilmente in reciproca osmosi
e contaminazione, in virtù di un processo che è
giocoforza assecondare o catalizzare attraverso la proposta
di modelli comunitari flessibili per evitare che l'immigrazione
si risolva nell'involuzione in molteplici realtà chiuse
e ghettizzate, antitetiche ed ingovernabili: così come
è ormai ineluttabile accettare l'idea che "mai
le storie individuali [
] sono state così
coinvolte nella storia generale, nella storia tuot court",
e mettere in conto che una simile evoluzione comporta necessariamente
una omologazione ed una perdita di identità in grado
di configurare nuovi scenari sociali.
Scartata
l'ipotesi utopistica di riportare nei centri storici gli abitanti originari, scartata
anche quella che popolazioni di costumi lontanissimi dai nostri possano semplicemente
sostituirsi ad essi nell'utilizzo di strutture segnate da una storia secolare
aliena alla loro cultura, sembra non resti altro che mettere in atto progettazioni
generiche ed omologanti, ad alto rischio di effetto presepe, come osserviamo
in molti centri storici europei, tutti ugualmente caratterizzati da una desolata
aria di "déjà vu", percorsi da spaesati turisti nostalgici,
musei di sé stessi, oleografiche riproduzioni di una realtà imbalsamata,
di un modo abitativo che non esiste più. Sono lontanissimi i tempi della
Carta di Gubbio, che assieme ad una visione squisitamente umanistica promuove
istanze di salvaguardia stilistica configuranti un approccio al problema dei centri
storici modernamente restaurativo, lontani i tempi in cui Pier Luigi Cervellati ristruttura il centro storico di Bologna a misura di residente, considerando gli
abitanti e le loro attività patrimonio da conservare alla pari delle loro
dimore, salvaguardando uomini e strutture con una progettazione partecipata frutto
della collaborazione di tutta la collettività. In entrambi i casi si
è consolidato in via definitiva e generale il concetto innovatore dell'estensione
della salvaguardia dall'ambiente al suo contesto sociale ed alla funzione originaria,
indelebilmente scritta nella forma architettonica, tuttavia, a fronte di mutazioni
socio-ambientali di inedita velocità e di imprevedibile portata, attualmente
la fattibilità di recuperi secondo questa direttiva è drasticamente
ridotta.
Un esempio estremo, tuttavia realistico, è rappresentato
dal travagliato tentativo di recupero, in atto da anni, di uno dei più
degradati ed estesi centri storici d'Europa, con i suoi 113 ettari, quello di
Genova, di caratteristiche morfologiche tali da renderlo incontrollabile sia dal
punto di vista edilizio sia da quello dell'ordine pubblico, interessato da un
costante calo demografico della popolazione originaria, numericamente decimata
anche dall'esodo spontaneo o forzatamente estromessa da pratiche di esproprio
messe in atto dall'Amministrazione comunale, responsabili, a causa del diffuso
contenzioso, di un fermo di cantiere ormai settennale. Tutto ciò ha significato
aumento delle occupazioni abusive e irreversibile degrado economico, commerciale
e sociale.
"Genova ha due forti personalità. La prima
è quella del centro storico, che sembra un blocco di
pietra dove qualcuno abbia inciso le strade, scavandole. La
seconda è quella del porto, il luogo del precario e
dell'avventura." così dice Renzo Piano,
al quale si devono alcuni scenografici interventi a margine
del centro storico, fra i quali un complesso multifunzionale
a destinazione congressuale, ricavato negli antichi Magazzini
del Cotone, ed il mastodontico Acquario, imponente quanto
discutibile attrazione scientifico-turistica-naturalistica
.
Nonostante l'intervento si voglia porre
come tentativo di ricucire l'angiporto con il mare, ricomponendo finalmente le
due anime della città, le nuove strutture restano completamente estranee,
al margine esterno del centro storico neanche minimamente coinvolto, accentuando
anzi le differenze e le incompatibilità tra una Genova turistica incuriosita
da un bigo che sempre più assomiglia ad una malinconica giostra per adulti
ed una Genova medioevale chiusa ed impenetrabile, nascosta ed indifferente. |