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Testi di Vilma Torselli su "Antithesi", giornale online di critica d'architettura.
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Storie parallele
di Vilma Torselli
pubblicato il 14/10/2008
"Non avrai altri dei al mio cospetto, non ti farai alcuna scultura né immagine qualsiasi di tutto quanto esiste in cielo al di sopra o in terra al di sotto o nelle acque al di sotto della terra".
Può sembrare strano che, quando la giovane America verso la metà del secolo scorso, decide di rifarsi il look e di dotarsi di una storia dell’arte originale e nazionale, si orienti verso l’utilizzo di un linguaggio astratto anziché proseguire lungo il cammino tracciato dalla newyorkese "Scuola degli otto".
Nata proprio con lo scopo di elaborare e promuovere uno stile nazionale slegato dalla tradizione europea ed autenticamente americano, da essa deriva quel "Realismo americano" che per le sue precise caratteristiche stilistiche e la tendenza ad un figurativismo spinto, in termini molto realistici sia per la figura che per il paesaggio, rappresenta la logica prosecuzione storica della pittura nordamericana ottocentesca, di derivazione anglosassone.
Può sembrare strano, tant’è che, contrariamente a queste premesse, la nuova arte americana sfocia quasi all’improvviso nell’espressionismo astratto, un linguaggio sradicato da ogni riferimento culturale precedente.
In effetti i motivi reali che giustificano questi sviluppi sono molteplici: innanzi tutto la materia prima, gli artisti, che provengono quasi totalmente dal gruppo surrealista europeo in fuga verso il nuovo mondo a causa delle leggi razziali, il che spiega la presenza di una larga maggioranza di elementi ebrei o comunque di origine ebraica, in secondo luogo l’esigenza politica e propagandistica sentita dal governo di quel periodo di dare al resto del mondo l’immagine dell’America come paese libero e democratico dove anche i linguaggi più deregolati hanno diritto di asilo e di espressione.

Gli artisti di estrazione ebraica daranno vita ad un linguaggio espressivo nuovo e peculiare, memore della radice aniconica della tradizione visiva della loro terra d’origine, quindi lontano da ogni tipo di figurazione, la quale, nella logica del racconto, viene surrogata da valori simbolici.
La ricca comunità ebraica aprirà le porte dei suoi palazzi e delle sue banche alle loro opere, la critica farà conoscere attraverso i media il linguaggio non esattamente popolare di questa nuova arte, l’organizzazione commerciale ebraica si incaricherà di diffonderne e commercializzarne i prodotti.
Sono ebrei Mark Rothko (Marcus Rothkovitz), Morris Louis, Arshile Gorkij, Alfred Stieglitz, Art Spiegelman, Adolf Gottlieb, Helen Frankenthaler, Barnett Newman, è ebreo svizzero Solomon R. Guggenheim, che istituisce una fondazione per la sua collezione privata (la Guggenheim Collection of Non-Objective Paintings) da cui deriverà il Guggenheim Museum di New York (direttore sarà l’ebreo Alfred H, Barr), è ebreo Nelson Rockefeller che tappezza le pareti delle sua banche con 2500 quadri espressionisti, è ebreo triestino Leo Castelli, figlio di un ricco ebreo ungherese, che organizza una vera e propria catena di prestigiose gallerie espositive in America ed in Europa, sono ebrei due critici d'arte, Clement Greenberg e Harold Rosemberg, determinanti nel lancio degli artisti e delle opere espressioniste sul fronte dell'opinione pubblica (attraverso le riviste di settore Partisan Review, The Nation, The New Yorker, ArtNews, Vogue e soprattutto Life).
Ed è ovviamente ebrea la mitica Peggy Guggenheim che si adopererà in mille modi per ‘dare una casa’ agli artisti nuovi arrivati ed uno pure se lo sposerà (il surrealista Max Ernst).

Grazie a questo congegno perfettamente sincronizzato, che ha come punti cardine una visione decisamente ghettizzata della cultura all’interno di una comunità con forti legami etnici ed una oculata e lungimirante strategia politica, mediatica ed economica previo un enorme dispendio di fondi, ha inizio uno dei più importanti imperialismi culturali che mai abbiano dominato il mondo dell'arte.

Sul finire del ‘900, il gioco che ha già dimostrato di funzionare egregiamente si ripete anche in architettura, condotto dallo stesso Philips Johnson già méntore degli artisti espressionisti ed ora degli architetti decostruttivisti, prendendo l’avvio, nel 1988, da una famosa conferenza al MOMA di New York nella quale egli presenta al mondo un gruppo di architetti, Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Peter Eisenman, Bernard Tschumi, Zaha Hadid e il Coop Himmelblau destinati a diventare in breve archistar di fama planetaria.
Anche questa nuova corrente architettonica non si rifà, come potrebbe essere storicamente logico, né all’unica esperienza autenticamente americana, l’architettura organica di Frank Lloyd Wright, spirito libero e nazionalista che pure invoca “Indipendenza dal classicismo, nuovo e vecchio, e da ogni atteggiamento di devozione ai cosiddetti classici", né alla tradizione funzionalista inaugurata dalla Scuola di Chicago, ma, come l’espressionismo astratto in pittura, esordisce con un linguaggio di rottura nei confronti di ogni precedente orientamento, anche autoctono, per affermare l’orgogliosa ‘americanità’ ed originalità di un’architettura moderna in contrasto con il conservatorismo europeo.
Sono venuti alla ribalta, lungo il corso della storia moderna, molti grandi architetti ebrei, dall’ebreo tedesco Erich Mendelsohn a Richard Neutra (ebreo austriaco), Louis Kahn (ebreo americano), Albert Kahn (ebreo alsaziano), e poi Frederick Kiesler, Serge Chermayeff, Bertrand Golberg, paesaggista, Myron Goldsmith, strutturalista della Skidmore, Owings & Merrill, Robert Stern, Moshe Safdie, Richard Rogers, Ionel Schein, Harry Seidler, Daniel Liebermann (un lungo elenco di personalità ebraiche si trova in una pubblicazione poco nota di Bruno Zevi “Ebraesimo e architettura”).
In Italia è di origini ebraiche Massimiliano Fuksas, di padre ebreo lituano, lo erano Ernesto Nathan Rogers, Angelo Di Castro, Eugenio Gentili Tedeschi, Mario Fiorentino, Giorgio Cavaglieri, Ciro Contini e parecchi altri affermati architetti.

Ma in particolare nell'ambito del movimento decostruttivista si rileva un addensamento che probabilmente non è casuale.
Nella rosa degli architetti di maggior spicco nel contemporaneo panorama internazionale emergono infatti poche indiscusse archistar tutte di origini ebraiche: Peter Eisenman (ebreo americano), Daniel Libeskind (ebreo polacco), Frank Owen Gehry (ebreo canadese che di cognome farebbe Goldberg, che si fa filmare per uno spot autopromozionale nientemeno che da Sydney Pollack, ebreo russo), né va dimenticato, per fama e attività progettuale in tutto il pianeta, Richard Meier (ebreo americano), in Italia tristemente noto per la teca dell’Ara pacis.

Come nell’espressionismo, è prevalentemente ebraica la committenza, che li incarica di costruire mausolei dell’olocausto, memoriali della shoà, musei ebraici e sinagoghe, ma anche alberghi, grattacieli e centri commerciali in ogni angolo del mondo.

Anche qui la critica che accredita e lancia il movimento è prevalentemente composta da ebrei, per restare in Italia, un nome per tutti, quello di Bruno Zevi, ebreo romano, che accoglie entusiasticamente il nuovo verbo con una larghezza di vedute che fa rientrare in un'unica entusiastica celebrazione tutti gli opposti: ”I percorsi sono ben differenziati, tra l'ossessivo perfezionismo di Meier e lo sfrontato "casual" di Gehry sembra non esserci nulla in comune. Ma, sotto la divergenza dei propositi, traspare un'autentica urgenza di spezzare le catene della schiavitù classicista, con i suoi feticci di dogmi, principi, regole, simmetrie, assonanze, accordi armonici, monumentalismi repressivi”.
Ma soprattutto, ciliegina sulla torta!, è ebreo algerino nato a El Biar quel Jacques Derrida al quale il versante più intellettuale del decostruttivismo fa riferimento per costruirsi una reputazione teorica, non importa se impropriamente derivata da una teoria letteraria sulla decostruzione del testo e sul logocentrismo.

Non è un caso che il logos sia alla base della cultura di matrice ebraica aniconica e iconoclasta, in opposizione a morphè, ciò che “la nostra infanzia greca”, per usare parole di Antonino Saggio, indica come forma sensibile, come modo di essere o di apparire, e non è un caso che sia l’espressionismo astratto che il decostruttivismo mettano in crisi proprio il concetto di forma.
Anche da un'analisi superficiale non è difficile individuare in certe scelte progettuali di Daniel Libeskind una relazione con i grandi vuoti mistici delle tele di Mark Rothko, nella fluida casualità dell’architettura gestuale di Frank Gehry una stretta corrispondenza con la deregolata soggettività espressiva dell’action painting di Jackson Pollock o con la casualità amebica delle forme liquide di William Baziotes.
in tutti i casi ciò che viene messo in gioco e che brilla per la sua assenza o quantomeno per la sua totale destrutturazione è la forma.
Questa convergenza programmatica tra le due correnti è l’aspetto più interessante e più decisivo per legarle sotto una stessa chiave di lettura.

Già dagli anni ’50, non più la forma, ma lo spazio, il colore, il vuoto, la materia informe, metafora di una realtà metafisica che non si può rappresentare, sono gli inediti temi delle opere di Kandinskij, Mathieu, Klein, Hartung, Kline e di tutta la schiera degli espressionisti americani, questi ultimi particolarmente aperti all’innovazione perché meno condizionati dall’impostazione filosofica che grava sulla cultura occidentale grazie a Platone ed Aristotele.
Sciolta dal marchio della forma, che impronta di sé l’informe materia del caos, la pittura espressionista diventa pura, libera ed assoluta astrazione.

Per l’architettura il discorso è evidentemente più complesso, perché "L'oggetto architettonico reca in sé una certa fatalità da cui è difficile fuggire" (mi pare sia Baudrillard a dirlo) e questa fatalità è la funzione, da sempre evocata, se non denunciata, dalla forma.
Il decostruttivismo, consumando la scissione del nesso tra forma e funzione, conquista la libertà formale dell’aniconicità al prezzo della rinuncia a tutti quei significati simbolici e concettuali appartenenti alla cultura collettiva grazie ai quali gli uomini comunicano tra loro.

L’architettura parla un suo chiaro linguaggio attraverso una molteplicità di indizi che forniscono le informazioni più elementari fino a quelle più concettuali, poiché gli edifici assumono autonomamente una forma confacente alla funzione, una tipologia imposta dalle necessità funzionali strutturandosi ‘in forma di’ : è perciò che già da lontano, percorrendo una città, individuiamo a colpo d’occhio una chiesa, un palazzo per uffici, un centro commerciale ecc.
Se però l’edificio è fatto ‘in forma di’ cetriolo, cavatappi. brioche, o di gigantesco origami ecco che le nostre deduzioni percettive vengono ingannate e subentra il senso di spaesamento, che è il contrario dell’identità.
Un-heimlich lo chiamavano Heidegger e Freud, il "non-familiare", l’inquietante [………],Lo spaesamento è la sospensione di ogni senso e si verifica là dove ciò che era familiare (heimlich) diventa inquietante (un-heimlich), ogni cosa, anche la più innocua, improvvisamente diventa minacciosa. Nulla è più rassicurante, non il volto della persona conosciuta, non il contorno delle cose e la loro disponibilità [………] Nulla più rassicura e acquieta. è la fine della continuità del vivere in una logica del senso e dei nessi di causalità….. “ così Umberto Galimberti definisce lo spaesamento.
E la perdita del senso dei luoghi e delle cose, del loro orientamento, spaziale e simbolico, l’opposizione alla loro riconoscibilità ha come esito la distruzione del senso di appartenenza (ad una comunità, ad un’etnia o semplicemente alla specie umana).
Se questo vuol fare e fa l’architettura decostruttivista, ammesso che ciò che ho scritto ne riassuma il senso, resta comunque da scoprirne il motivo.
Perché?

*articolo aggiornato il 4/02/2019

link
:
Mancanza di forma, articolo di Pietro Pagliardini
Il metodo americano
Decostruttivismo: a chi deve parlare e a chi no
L'arte aniconica
La forma
La conquista della forma


DE ARCHITECTURA
di Pietro Pagliardini


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