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Testi di Vilma Torselli su "Antithesi", giornale online di critica d'architettura.
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Libri
American Art 1961-2001 la storia dell'arte moderna negli Stati Uniti tra due momenti decisivi della storia americana, la guerra del Vietnam e l'attacco alle Torri Gemelle. |
Musei
Milano, apre il Museo delle Illusioni, con incredibili installazioni, illusioni visive, giochi e rompicapi. |
Concorsi
Concorso artistico Lucca Biennale Cartasia 2022, tema conduttore di questa edizione “The white page” (pagina bianca), le infinite possibilità per gli artisti di raccontarsi tramite le opere in carta.
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Premi
I vincitori del Premio Pritzker per l'architettura 2021 sono Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal: talento, visione e impegno per migliorare la vita delle persone. |
In Italia
Al Palazzo Ducale di Genova, dal 9 settembre 2021 al 20 febbraio 2022 grande mostra di Maurits Cornelis Escher. |
All'estero
Parigi, all’Espace Lafayette-Drouot "The World of Bansky”, su 1200 mq. esposte un centinaio di opere del più famoso street artist del mondo. Fino al 31 dicembre 2021.
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Storie parallele
di Vilma Torselli
pubblicato il 14/10/2008 |
"Non avrai
altri dei al mio cospetto, non ti farai alcuna scultura né
immagine qualsiasi di tutto quanto esiste in cielo al di sopra
o in terra al di sotto o nelle acque al di sotto della terra". |
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Può sembrare strano che, quando
la giovane America verso la metà del secolo scorso,
decide di rifarsi il look e di dotarsi di una storia dell’arte
originale e nazionale, si orienti verso l’utilizzo di
un linguaggio astratto anziché proseguire lungo il
cammino tracciato dalla newyorkese "Scuola degli otto".
Nata proprio con lo scopo di elaborare e promuovere uno stile
nazionale slegato dalla tradizione europea ed autenticamente
americano, da essa deriva quel "Realismo americano"
che per le sue precise caratteristiche stilistiche e la tendenza
ad un figurativismo spinto, in termini molto realistici sia
per la figura che per il paesaggio, rappresenta la logica
prosecuzione storica della pittura nordamericana ottocentesca,
di derivazione anglosassone.
Può sembrare strano, tant’è che, contrariamente
a queste premesse, la nuova arte americana sfocia quasi all’improvviso
nell’espressionismo
astratto, un linguaggio sradicato da ogni riferimento culturale
precedente.
In effetti i motivi reali che giustificano questi sviluppi sono
molteplici: innanzi tutto la materia prima, gli artisti, che
provengono quasi totalmente dal gruppo surrealista
europeo in fuga verso il nuovo mondo a causa delle leggi razziali,
il che spiega la presenza di una larga maggioranza di elementi
ebrei o comunque di origine ebraica, in secondo luogo l’esigenza
politica e propagandistica sentita dal governo di quel periodo
di dare al resto del mondo l’immagine dell’America
come paese libero e democratico dove anche i linguaggi più
deregolati hanno diritto di asilo e di espressione.
Gli artisti di estrazione ebraica daranno vita ad un linguaggio
espressivo nuovo e peculiare, memore della radice aniconica della tradizione visiva della loro terra d’origine, quindi
lontano da ogni tipo di figurazione, la quale, nella logica
del racconto, viene surrogata da valori simbolici.
La ricca comunità ebraica aprirà le porte dei
suoi palazzi e delle sue banche alle loro opere, la critica
farà conoscere attraverso i media il linguaggio non esattamente
popolare di questa nuova arte, l’organizzazione commerciale
ebraica si incaricherà di diffonderne e commercializzarne
i prodotti.
Sono ebrei Mark Rothko (Marcus Rothkovitz), Morris Louis, Arshile
Gorkij, Alfred Stieglitz, Art Spiegelman, Adolf Gottlieb, Helen
Frankenthaler, Barnett Newman, è ebreo svizzero Solomon
R. Guggenheim, che istituisce una fondazione per la sua collezione
privata (la Guggenheim Collection of Non-Objective Paintings)
da cui deriverà il Guggenheim Museum di New York (direttore
sarà l’ebreo Alfred H, Barr), è ebreo Nelson
Rockefeller che tappezza le pareti delle sua banche con 2500
quadri espressionisti, è ebreo triestino Leo Castelli,
figlio di un ricco ebreo ungherese, che organizza una vera e
propria catena di prestigiose gallerie espositive in America
ed in Europa, sono ebrei due critici d'arte, Clement Greenberg e Harold Rosemberg, determinanti nel lancio degli artisti e
delle opere espressioniste sul fronte dell'opinione pubblica
(attraverso le riviste di settore Partisan Review, The Nation,
The New Yorker, ArtNews, Vogue e soprattutto Life).
Ed è ovviamente ebrea la mitica Peggy Guggenheim che si
adopererà in mille modi per ‘dare una casa’
agli artisti nuovi arrivati ed uno pure se lo sposerà (il surrealista Max Ernst).
Grazie a questo congegno perfettamente sincronizzato, che ha
come punti cardine una visione decisamente ghettizzata della
cultura all’interno di una comunità con forti legami
etnici ed una oculata e lungimirante strategia politica, mediatica
ed economica previo un enorme dispendio di fondi, ha inizio
uno dei più importanti imperialismi culturali che mai
abbiano dominato il mondo dell'arte.
Sul finire del ‘900, il gioco che ha già dimostrato
di funzionare egregiamente si ripete anche in architettura,
condotto dallo stesso Philips Johnson già méntore
degli artisti espressionisti ed ora degli architetti decostruttivisti,
prendendo l’avvio, nel 1988, da una famosa conferenza al MOMA di
New York nella quale egli presenta al mondo un gruppo di architetti, Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Peter Eisenman, Bernard Tschumi, Zaha Hadid e il Coop Himmelblau destinati a diventare in breve archistar di fama planetaria.
Anche questa nuova corrente architettonica non si rifà,
come potrebbe essere storicamente logico, né all’unica
esperienza autenticamente americana, l’architettura organica
di Frank Lloyd Wright,
spirito libero e nazionalista che pure invoca “Indipendenza
dal classicismo, nuovo e vecchio, e da ogni atteggiamento di
devozione ai cosiddetti classici", né alla
tradizione funzionalista inaugurata dalla Scuola di Chicago,
ma, come l’espressionismo astratto in pittura, esordisce
con un linguaggio di rottura nei confronti di ogni precedente
orientamento, anche autoctono, per affermare l’orgogliosa
‘americanità’ ed originalità di un’architettura
moderna in contrasto con il conservatorismo europeo.
Sono venuti alla ribalta, lungo il corso della storia moderna,
molti grandi architetti ebrei, dall’ebreo tedesco Erich
Mendelsohn a Richard Neutra (ebreo austriaco), Louis Kahn (ebreo
americano), Albert Kahn (ebreo alsaziano), e poi Frederick Kiesler,
Serge Chermayeff, Bertrand Golberg, paesaggista, Myron Goldsmith,
strutturalista della Skidmore, Owings & Merrill, Robert
Stern, Moshe Safdie, Richard Rogers, Ionel Schein, Harry Seidler,
Daniel Liebermann (un lungo elenco di personalità ebraiche
si trova in una pubblicazione poco nota di Bruno Zevi “Ebraesimo
e architettura”).
In Italia è di origini ebraiche Massimiliano Fuksas,
di padre ebreo lituano, lo erano Ernesto Nathan Rogers, Angelo
Di Castro, Eugenio Gentili Tedeschi, Mario Fiorentino, Giorgio
Cavaglieri, Ciro Contini e parecchi altri affermati architetti.
Ma in particolare nell'ambito del movimento decostruttivista si rileva un addensamento
che probabilmente non è casuale.
Nella rosa degli architetti
di maggior spicco nel contemporaneo panorama internazionale
emergono infatti poche indiscusse archistar tutte di origini
ebraiche: Peter Eisenman (ebreo americano), Daniel Libeskind
(ebreo polacco), Frank Owen Gehry (ebreo canadese che di cognome
farebbe Goldberg, che si fa filmare per uno spot autopromozionale
nientemeno che da Sydney Pollack, ebreo russo), né
va dimenticato, per fama e attività progettuale in
tutto il pianeta, Richard Meier (ebreo americano), in Italia
tristemente noto per la teca dell’Ara pacis. |
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Come nell’espressionismo,
è prevalentemente ebraica la committenza, che li incarica
di costruire mausolei dell’olocausto, memoriali della
shoà, musei ebraici e sinagoghe, ma anche alberghi,
grattacieli e centri commerciali in ogni angolo del mondo.
Anche qui la critica che accredita e lancia il movimento è
prevalentemente composta da ebrei, per restare in Italia,
un nome per tutti, quello di Bruno Zevi, ebreo romano, che
accoglie entusiasticamente il nuovo verbo con una larghezza
di vedute che fa rientrare in un'unica entusiastica celebrazione
tutti gli opposti: ”I percorsi sono ben differenziati,
tra l'ossessivo perfezionismo di Meier e lo sfrontato "casual"
di Gehry sembra non esserci nulla in comune. Ma, sotto la
divergenza dei propositi, traspare un'autentica urgenza di
spezzare le catene della schiavitù classicista, con
i suoi feticci di dogmi, principi, regole, simmetrie, assonanze,
accordi armonici, monumentalismi repressivi”.
Ma soprattutto, ciliegina sulla torta!, è ebreo algerino
nato a El Biar quel Jacques Derrida al quale il versante più
intellettuale del decostruttivismo fa riferimento per costruirsi
una reputazione teorica, non importa se impropriamente derivata
da una teoria letteraria sulla decostruzione del testo e sul
logocentrismo.
Non è un caso che il logos sia alla base della
cultura di matrice ebraica aniconica e iconoclasta, in opposizione
a morphè, ciò che “la nostra
infanzia greca”, per usare parole di Antonino Saggio, indica come forma sensibile, come modo
di essere o di apparire, e non è un caso che sia l’espressionismo
astratto che il decostruttivismo mettano in crisi proprio
il concetto di forma.
Anche da un'analisi superficiale non è difficile individuare
in certe scelte progettuali di Daniel Libeskind una relazione
con i grandi vuoti mistici delle tele di Mark Rothko, nella
fluida casualità dell’architettura gestuale di
Frank Gehry una stretta corrispondenza con la deregolata soggettività
espressiva dell’action painting di Jackson
Pollock o con la casualità amebica delle forme liquide
di William Baziotes.
in tutti i casi ciò che viene
messo in gioco e che brilla per la sua assenza o quantomeno per la sua totale destrutturazione è la
forma.
Questa convergenza programmatica tra le due correnti è
l’aspetto più interessante e più decisivo
per legarle sotto una stessa chiave di lettura.
Già dagli anni ’50, non più la forma,
ma lo spazio, il colore, il vuoto, la materia informe, metafora
di una realtà metafisica che non si può rappresentare,
sono gli inediti temi delle opere di Kandinskij, Mathieu,
Klein, Hartung, Kline e di tutta la schiera degli espressionisti
americani, questi ultimi particolarmente aperti all’innovazione
perché meno condizionati dall’impostazione filosofica
che grava sulla cultura occidentale grazie a Platone ed Aristotele.
Sciolta dal marchio della forma, che impronta di sé
l’informe materia del caos, la pittura espressionista
diventa pura, libera ed assoluta astrazione.
Per l’architettura il discorso è evidentemente
più complesso, perché "L'oggetto architettonico
reca in sé una certa fatalità da cui è
difficile fuggire" (mi pare sia Baudrillard a dirlo)
e questa fatalità è la funzione, da sempre evocata,
se non denunciata, dalla forma.
Il decostruttivismo, consumando la scissione del nesso tra
forma e funzione, conquista la libertà formale dell’aniconicità
al prezzo della rinuncia a tutti quei significati simbolici
e concettuali appartenenti alla cultura collettiva grazie
ai quali gli uomini comunicano tra loro.
L’architettura parla un suo chiaro linguaggio attraverso
una molteplicità di indizi che forniscono le informazioni
più elementari fino a quelle più concettuali,
poiché gli edifici assumono autonomamente una forma
confacente alla funzione, una tipologia imposta dalle necessità
funzionali strutturandosi ‘in forma di’ : è
perciò che già da lontano, percorrendo una città,
individuiamo a colpo d’occhio una chiesa, un palazzo
per uffici, un centro commerciale ecc.
Se però l’edificio è fatto ‘in forma
di’ cetriolo, cavatappi. brioche, o di gigantesco origami
ecco che le nostre deduzioni percettive vengono ingannate
e subentra il senso di spaesamento, che è il contrario
dell’identità.
“Un-heimlich lo chiamavano Heidegger e Freud, il
"non-familiare", l’inquietante [………],Lo
spaesamento è la sospensione di ogni senso e si verifica
là dove ciò che era familiare (heimlich) diventa
inquietante (un-heimlich), ogni cosa, anche la più
innocua, improvvisamente diventa minacciosa. Nulla è
più rassicurante, non il volto della persona conosciuta,
non il contorno delle cose e la loro disponibilità
[………] Nulla più rassicura e acquieta.
è la fine della continuità del vivere in una
logica del senso e dei nessi di causalità…..
“ così Umberto Galimberti definisce lo spaesamento.
E la perdita del senso dei luoghi e delle cose, del loro orientamento,
spaziale e simbolico, l’opposizione alla loro riconoscibilità
ha come esito la distruzione del senso di appartenenza (ad
una comunità, ad un’etnia o semplicemente alla
specie umana).
Se questo vuol fare e fa l’architettura decostruttivista,
ammesso che ciò che ho scritto ne riassuma il senso,
resta comunque da scoprirne il motivo.
Perché?
*articolo aggiornato il 4/02/2019
link:
Mancanza
di forma, articolo di Pietro
Pagliardini
Il metodo americano
Decostruttivismo:
a chi deve parlare e a chi no
L'arte
aniconica
La
forma
La
conquista della forma |
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