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Ethical Architecture
di Vilma Torselli
pubblicato il 17/11/2008

"..... Le categorie di buono e cattivo sono, in primo luogo e soprattutto categorie estetiche che precedono le categorie del bene e del male..... “.

l’architettura riveste un valore civico, il cui significato è che chiunque sia il suo produttore, committente, costruttore o progettista, essa appartiene sempre e comunque alla città e ai suoi cittadini e perciò l’estetica di ogni edificio possiede intrinsecamente un valore etico.
Quanto più bella, cioè più rispettosa del contesto e della città, essa sarà, quanto più condivisa sarà la sua estetica, tanto più quell’opera potrà dirsi etica. L'etica dell'architettura, cioè, non sta tanto nel soggetto (il produttore) ma nell'oggetto stesso (il prodotto).
” dal blog De Architectura, post di Pietro Pagliardini)

Mi pare del tutto condivisibile questa affermazione dalla quale discende un’idea di progettazione (architettonica o urbanistica) come presa di responsabilità civile e dovere morale dell’architetto.
Renzo Piano ha scritto sull’argomento addirittura un libro, ‘La responsabilità dell’architetto’ (Passigli Editore, 2004), Massimiliano Fuksas, Mario Botta, Emilio Ambasz e tutta una schiera di noti o meno noti professionisti hanno dichiarato con molte o poche parole la loro consapevolezza del significato etico dell’architettura, almeno di quella da loro prodotta.
Etica, per intenderci, è tutto ciò che riguarda il comportamento umano considerato in rapporto all’idea che si ha del bene e del male così come questi due termini antitetici vengono definiti ed accettati nel codice di regolamentazione dei rapporti comuni.
Etica o morale (in entrambi i casi l’etimo, sia il greco ethos che il latino mos significa costume o uso) è termine dai confini molto ampi che comprendono tutto il campo dell’agire umano e tutto ciò che le azioni dell’uomo producono, compresa quindi l’architettura.
Discende da ciò la recente provocazione di Daniel Libeskind che, in occasione delle ultime olimpiadi, ha invitato i colleghi di tutto il mondo ad assumere un atteggiamento etico, in quanto architetti, rifiutando di collaborare con regimi totalitari quali, nella fattispecie, quello cinese.
Personalmente penso che anche in regimi dichiaratamente democratici ed anche in progettazioni dello stesso Libeskind ci possano essere condizioni di non-eticità, ma questa è un’altra storia.

Il legame tra etica ed estetica, tra bene e bellezza, sembrerebbe comunque il cardine sul quale ruota il discorso sull’architettura, che per essere sempre e comunque patrimonio della città e della comunità che ci vive deve avere una connotazione il più ‘bella’ possibile secondo un criterio di giudizio il più condivisibile possibile, acquisendo, per i suddetti motivi, una intrinseca valenza etica. La logica del ragionamento appare ineccepibile: l’etica riguarda i fondamenti oggettivi e razionali del progettare, l’estetica il modo secondo il quale metterli in atto, etica ed estetica diventano così imprescindibili attributi dell’oggetto architettonico.

Tuttavia, per non rischiare di assegnare arbitrarie e personali gerarchie di valori, mi piace a questo punto citare un pensiero esterno ed estraneo al mondo dell’architettura, tratto dal discorso che Iosif Brodskij pronunciò in occasione dell’assegnazione del Nobel per la letteratura nel 1987:” Ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà etica dell'uomo. Giacché l'estetica è la madre dell'etica. Le categorie di buono e cattivo sono, in primo luogo e soprattutto, categorie estetiche che precedono le categorie del bene e del male... “.
Azzardato e precognitvo all’epoca, il discorso di Brodskij lo appare molto meno oggi, dopo la scoperta di precise aree cerebrali neuronali (i neuroni specchio, dapprima individuati nella corteccia premotoria di una scimmia e successivamente nell'emisfero sinistro del cervello umano) che fungerebbero, secondo il modello della “simulazione incarnata” dell’intersoggettività, da mediatori nell’esperienza estetica specie nelle arti visive: mediante l'attivazione dell'empatia i neuroni specchio inducono infatti a compiere scelte estetiche, non morali.
Sarà per questo che da sempre nell’arte visiva non ha senso parlare di buono o cattivo, ma solo di bello o brutto, assegnando un deciso primato all’estetica sull’etica: come afferma John Ruskin “….. Senza dubbio il dono artistico e la bontà sono due cose distinte; un uomo buono non è per forza un pittore, e una visione da colorista non implica valore morale…..

L’arte può infatti esprimersi liberamente senza autolimitarsi né finalizzarsi, può essere bella e cattiva, brutta e buona, può essere contemporaneamente bella e brutta, buona e cattiva, senza intenzionalità alcuna, poiché il suo scopo, ha detto qualcuno, è quello di essere senza scopo

Tutta l’arte moderna, da Picasso a Bacon, da Schönberg a Cage, da Beckett a Jonesco, rovesciando i canoni tradizionali del bello, produce però opere d’arte in cui domina, potremmo dire, lo stridore dei colori, la deformazione delle figure, le dissonanze, le frasi assurde. Allora cosa significa tutto questo, che il brutto è diventato nell’arte moderna la vera bellezza, l’autentica bellezza? “(Silvia Calandrelli, intervista a Remo Bodei, 2000): la risposta, secondo Bodei, sta nel fatto che “..il bello non problematico, cellofanato, si è trasformato in kitsch, cioè in qualche cosa che non produce più nessuna emozione estetica, perché semplicemente asseconda tutti i pregiudizi e tutte le forme percettive ormai consunte […..] l’arte reagisce sperimentando qualche cosa che va al di là delle forme "fruste", come si chiamano, delle forme consumate…….”.

Si può applicare all’architettura, in un periodo di deriva del gusto e dello stile come quello di oggi, questo stesso ragionamento? Si può accettare con indifferenza di giudizio l’architettura ‘brutta’, che si sottrae al suo ruolo civico, che ignora il contesto storico, il continuum spazio-temporale, gli usi ed i costumi (ethos e mos) della comunità nella quale si colloca, che quindi non sia ‘etica’?

Forse l’architetto, addentrandosi con il suo operare, volontariamente o inconsapevolmente, nel campo dell'etica, non dice nulla che non sia già stato detto in altri ambiti del pensiero del suo tempo, non fa che interpretare e tradurre in forma costruita un messaggio già articolato da altri in linguaggi diversi, forse, parafrasando Umberto Eco l’architettura non è che una "metafora epistemologica" che esprime la cultura del suo tempo attraverso una forma.

Qualunque sia il senso del fare architettura, non c'è comunque un altro modo di farlo.

E forse proprio la dimensione etica dell’architettura costituisce il suo maggior limite, quello di una disciplina fatta dall’uomo per l’uomo, che parla a sé stesso di sé, della sua cultura, delle sue usanze, del suo passato, della sua storia: così come ogni uomo fa con il proprio figlio, costruendo quella rete di rimandi, memorie, esperienze ed informazioni che hanno permesso la nostra sopravvivenza su questo pianeta.

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All this Useless Beauty
L'ombelico del mondo
Architettura e consenso


DE ARCHITECTURA
di Pietro Pagliardini


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