“l’architettura riveste un
valore civico, il cui significato è che chiunque sia
il suo produttore, committente, costruttore o progettista,
essa appartiene sempre e comunque alla città e ai suoi
cittadini e perciò l’estetica di ogni edificio
possiede intrinsecamente un valore etico.
Quanto più bella, cioè più rispettosa
del contesto e della città, essa sarà, quanto
più condivisa sarà la sua estetica, tanto più
quell’opera potrà dirsi etica. L'etica dell'architettura,
cioè, non sta tanto nel soggetto (il produttore) ma
nell'oggetto stesso (il prodotto).” dal blog
De Architectura, post di Pietro
Pagliardini)
Mi pare del tutto condivisibile questa affermazione dalla
quale discende un’idea di progettazione (architettonica
o urbanistica) come presa di responsabilità civile e dovere morale dell’architetto.
Renzo Piano ha scritto
sull’argomento addirittura un libro, ‘La responsabilità
dell’architetto’ (Passigli Editore, 2004),
Massimiliano Fuksas, Mario Botta, Emilio Ambasz e tutta una
schiera di noti o meno noti professionisti hanno dichiarato
con molte o poche parole la loro consapevolezza del significato
etico dell’architettura, almeno di quella da loro prodotta.
Etica, per intenderci, è tutto ciò che riguarda
il comportamento umano considerato in rapporto all’idea
che si ha del bene e del male così come questi due
termini antitetici vengono definiti ed accettati nel codice
di regolamentazione dei rapporti comuni.
Etica o morale (in entrambi i casi l’etimo, sia il greco
ethos che il latino mos significa costume o uso) è
termine dai confini molto ampi che comprendono tutto il campo
dell’agire umano e tutto ciò che le azioni dell’uomo
producono, compresa quindi l’architettura.
Discende da ciò la recente provocazione di Daniel Libeskind
che, in occasione delle ultime olimpiadi, ha invitato i colleghi
di tutto il mondo ad assumere un atteggiamento etico, in quanto
architetti, rifiutando di collaborare con regimi totalitari
quali, nella fattispecie, quello cinese.
Personalmente penso che anche in regimi dichiaratamente democratici
ed anche in progettazioni dello stesso Libeskind ci possano
essere condizioni di non-eticità, ma questa è
un’altra storia.
Il legame tra etica ed estetica, tra bene e bellezza, sembrerebbe
comunque il cardine sul quale ruota il discorso sull’architettura,
che per essere sempre e comunque patrimonio della città
e della comunità che ci vive deve avere una connotazione
il più ‘bella’ possibile secondo un criterio
di giudizio il più condivisibile possibile, acquisendo,
per i suddetti motivi, una intrinseca valenza etica. La logica
del ragionamento appare ineccepibile: l’etica riguarda
i fondamenti oggettivi e razionali del progettare, l’estetica
il modo secondo il quale metterli in atto, etica ed estetica
diventano così imprescindibili attributi dell’oggetto
architettonico.
Tuttavia, per non rischiare di assegnare arbitrarie e personali
gerarchie di valori, mi piace a questo punto citare un pensiero
esterno ed estraneo al mondo dell’architettura, tratto
dal discorso che Iosif Brodskij pronunciò in occasione
dell’assegnazione del Nobel per la letteratura nel 1987:”
Ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà
etica dell'uomo. Giacché l'estetica è la madre
dell'etica. Le categorie di buono e cattivo sono, in primo
luogo e soprattutto, categorie estetiche che precedono le
categorie del bene e del male... “.
Azzardato e precognitvo all’epoca, il discorso di Brodskij
lo appare molto meno oggi, dopo la scoperta di precise aree
cerebrali neuronali (i neuroni specchio, dapprima individuati
nella corteccia premotoria di una scimmia e successivamente
nell'emisfero sinistro del cervello umano) che fungerebbero,
secondo il modello della “simulazione incarnata”
dell’intersoggettività, da mediatori nell’esperienza
estetica specie nelle arti visive: mediante l'attivazione
dell'empatia i neuroni specchio inducono infatti a compiere
scelte estetiche, non morali.
Sarà per questo che da sempre nell’arte visiva
non ha senso parlare di buono o cattivo, ma solo di bello
o brutto, assegnando un deciso primato all’estetica
sull’etica: come afferma John Ruskin “…..
Senza dubbio il dono artistico e la bontà sono
due cose distinte; un uomo buono non è per forza un
pittore, e una visione da colorista non implica valore morale…..”
L’arte può infatti esprimersi liberamente senza
autolimitarsi né finalizzarsi, può essere bella
e cattiva, brutta e buona, può essere contemporaneamente
bella e brutta, buona e cattiva, senza intenzionalità
alcuna, poiché il suo scopo, ha detto qualcuno, è
quello di essere senza scopo
“Tutta l’arte moderna, da Picasso a Bacon,
da Schönberg a Cage, da Beckett a Jonesco, rovesciando
i canoni tradizionali del bello, produce però opere
d’arte in cui domina, potremmo dire, lo stridore dei
colori, la deformazione delle figure, le dissonanze, le frasi
assurde. Allora cosa significa tutto questo, che il brutto
è diventato nell’arte moderna la vera bellezza,
l’autentica bellezza? “(Silvia Calandrelli,
intervista a Remo Bodei, 2000): la risposta, secondo Bodei,
sta nel fatto che “..il bello non problematico,
cellofanato, si è trasformato in kitsch, cioè
in qualche cosa che non produce più nessuna emozione
estetica, perché semplicemente asseconda tutti i pregiudizi
e tutte le forme percettive ormai consunte […..] l’arte
reagisce sperimentando qualche cosa che va al di là
delle forme "fruste", come si chiamano, delle forme
consumate…….”.
Si può applicare all’architettura, in un periodo
di deriva del gusto e dello stile come quello di oggi, questo
stesso ragionamento? Si può accettare con indifferenza
di giudizio l’architettura ‘brutta’, che
si sottrae al suo ruolo civico, che ignora il contesto storico,
il continuum spazio-temporale, gli usi ed i costumi (ethos e mos) della comunità nella quale si colloca, che quindi
non sia ‘etica’?
Forse l’architetto, addentrandosi con il suo operare,
volontariamente o inconsapevolmente, nel campo dell'etica,
non dice nulla che non sia già stato detto in altri
ambiti del pensiero del suo tempo, non fa che interpretare
e tradurre in forma costruita un messaggio già articolato
da altri in linguaggi diversi, forse, parafrasando Umberto
Eco l’architettura non è che una "metafora
epistemologica" che esprime la cultura del suo tempo
attraverso una forma.
Qualunque sia il senso del fare architettura, non c'è
comunque un altro modo di farlo.
E forse proprio la dimensione etica dell’architettura
costituisce il suo maggior limite, quello di una disciplina
fatta dall’uomo per l’uomo, che parla a sé
stesso di sé, della sua cultura, delle sue usanze,
del suo passato, della sua storia: così come ogni uomo
fa con il proprio figlio, costruendo quella rete di rimandi,
memorie, esperienze ed informazioni che hanno permesso la
nostra sopravvivenza su questo pianeta.
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Architettura e consenso
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