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Ricevo e volentieri pubblico una lettera aperta del collega architetto Mariopaolo Fadda, ritenedola di sicuro interesse per tutti quelli che, a vario titolo, si occupano di architettura.
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Caro Presidente, perché dico no alla proposta di legge sulla qualità architettonica.

Alla cortese attenzione
dell’Arch. Tullio Angius
Presidente dell’Ordine degli Architetti di Cagliari

e p.c. Al direttore dell’Unione Sarda
Dott. Paolo Figus
Cagliari

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Caro Presidente,
da iscritto ritengo di dover esprimere il mio dissenso sull’adesione dell’Ordine di Cagliari alla proposta di legge di iniziativa popolare sulla qualità architettonica, sponsorizzata dalla rivista “Progetti e Concorsi”.

Premetto che, a scanso di equivoci, nel passato sono stato timidamente favorevole a simile approccio – e ho scritto articoli in proposito -, ma oggi, dopo averne discusso per anni con colleghi italiani e stranieri, ho maturato la conclusione opposta e ti spiego il perché.

Pensare di regolamentare per legge una materia che intreccia valori espressivi, estetici e sociali è fare letteratura. Sarebbe come pretendere di abolire per decreto i vizi per ottenere una società di donne e uomini virtuosi.

Ogni tanto qualche solone della disciplina si sveglia, lancia fuoco e fiamme contro le brutture che devastano il territorio e mette subito mano alla sua bella proposta di legge per imporre la “qualità” di stato. Ora è il turno delle riviste e degli ordini professionali. L’entrata in campo non è delle più felici: art. 1 “L’architettura è una espressione della cultura e del patrimonio artistico del nostro Paese. La Repubblica promuove e tutela con ogni mezzo la qualità dell’ideazione e della realizzazione architettonica come bene di interesse pubblico primario per la salvaguardia e la trasformazione del paesaggio”. 42 parole di vuota retorica che sintetizzano lucidamente l’ideologia burocratico-dirigista che anima questa proposta.

Chi sarebbero, secondo questa ideologia, i responsabili degli orrori architettonici ed urbanistici del Bel Paese? Tutti, eccetto noi architetti e gli ordini professionali. Infatti, invece di assumerci la nostra parte di responsabilità, ci spacciamo addirittura come povere vittime di scaltri legislatori, di società d’ingegneria onnipotenti e di diabolici speculatori edilizi, che avrebbero estorto la nostra partecipazione all’orgia distruttiva.

"Cos’è oggi un Architetto in Italia? Tralasciamo la minoranza che opera positivamente con immensi sforzi, per eccezionali meriti e con sacrifici che spesso implicano la rinuncia al professionismo. La massa degli architetti è succube della speculazione, si è assuefatta ad uno stato umiliante, assiste allo sfacelo del paese e spesso, per sopravvivere, contribuisce ad incrementarlo”. Così scriveva Bruno Zevi nel 1973, oggi la situazione non è cambiata anzi, se vogliamo, è persino peggiorata.

Non è questa la sede per approfondimenti, per cui tenterò di illustrare in forma sintetica alcuni dei fattori che, a mio modesto parere, hanno portato la professione a contribuire, volontariamente e coscientemente, al disastro architettonico e urbanistico del Paese.

1. Estraniamento. Gli architetti si sono estraniati completamente dal processo costruttivo rinunciando a quel ruolo di “mastro costruttore” che per secoli ne ha contrassegnato la figura. La segregazione tra progettista e costruttore è uno dei più sciagurati lasciti dell'ideologia modernista del XX secolo.
Uno si aspetterebbe di vedere gli architetti impegnati a mettere a frutto le trasformazioni “dell’industria delle costruzioni come inizio dello sradicamento della divisione tra architetto concettuale e pratico costruttore che ha tormentato teoria e pratica sin dal rinascimento” (Anthony Vidler), invece li vediamo tutti intenti a puntellare anacronistici privilegi di casta, a ipotecare un miserabile posto nelle giurie dei concorsi, a reclamare più potere dallo stato.

2. Élitarismo. La disciplina architettonica sconta, in Italia in maniera ben più soffocante che in altri paesi, i devastanti effetti della dicotomia, tra élitarismo e professione. Due mondi ormai sempre più estranei e sempre più contrapposti dove le superstars (o presunte tali) e il loro codazzo di critici e riviste compiacenti, sono impegnate a dare sfogo alle idiosincrasie degli stilisti alla moda, alle smanie di onnipotenza dei direttori dei musei o ad asservire i sogni megalomani dei potenti, mentre la stragrande maggioranza degli architetti deve battersi con il coltello tra i denti per sopravvivere nel caos della giungla edilizia e legislativa. E, nella giungla, tutto è lecito, persino addebitare a sprovveduti diplomati (geometri), alle imprese, alle amministrazioni pubbliche – che pure dovrebbero recitare la loro parte di mea culpa – l'intera responsabilità di questo stato di cose.

3. Scadimento del progetto. La qualità architettonica non può prescindere da un'alta qualità del suo mezzo espressivo: il progetto. Ben pochi sembrano consapevoli di questa verità lapalissiana. Perché? Perché il progetto, quello che rende possibile l'esecuzione dell'opera, è considerato una sorta di trivializzazione del processo creativo e quindi non merita, in sé, grandi attenzioni. Infatti sia l'architetto di fama che il più commerciale dei professionisti si limitano, in sede progettuale, a sviluppare essenzialmente l’aspetto formale rimandando alla fase esecutiva, e spesso ad altri operatori, gli aspetti tecnicamente e tecnologicamente complessi.
L’evanescenza dell’approccio odierno, con un progetto approssimativo, carente di dettagli e specificazioni, di modelli da testare, rende praticamente impossibile una seria e certa programmazione dei tempi di esecuzione e dei costi che pendono come una spada di Damocle sulla testa dell’ignaro cliente sia esso pubblico che privato. Il quale, alla conclusione dei lavori, si ritrova in mano, invariabilmente, un prodotto finito in ritardo, costato più del previsto e di scadente qualità. In questo contesto di arretratezza culturale e tecnologica egli non ha la benchè minima opportunità di incidere sullo spazio fisico in cui vivrà o lavorerà.

4. Arretratezza progettuale e metodologica. Alcuni dei più interessanti indirizzi di sviluppo della ricerca architettonica negli USA proviene da workshops e da piccoli studi professionali dove, grazie alle moderne tecnologie, si sperimenta su modelli fino alla scala 1:1 che consentono di “vedere rapidamente i limiti del progetto e la complessità della sua realizzazione”, come afferma Sean Tracy di FACE. Questo metodo consente il test del prototipo, la riprogettazione, in modo rapido, economico e la valutazione di un ampio raggio di possibili alternative in cui il cliente ha la possibilità di essere attivamente e creativamente coinvolto. Un innovativo processo di interazione tra pensiero e azione, progetto e costruzione, prototipo e edificio che mira veramente a riportare la figura dell'architetto al centro della produzione architettonica.
Da noi tutto questo non accade perché i piccoli studi professionali sono soffocati da leggi, norme, regolamenti, direttive e da una burocrazia onnipotente e quindi non resta loro che continuare con la pratica dell’accanimento terapeutico sull’edificio reale, fatto di errori progettuali e orrori costruttivi, costi esorbitanti, ritardi e sprechi di ogni genere.

5. Obsolescenza tecnologica. Per una produzione architettonica di qualità generalizzata - sostengono S. Kieran e J. Timberlake, in Refabricating Architecture - bisogna rivolgere lo sguardo a quei settori che, abbassando il costo, riducendo il tempo e incrementando le possibilità di personalizzazione, hanno raggiunto lo scopo: le industrie automobilistica, navale e aeronautica che sono passate dalla catena di montaggio all’assemblaggio di moduli integrati (chunks). Altri settori produttivi ed aziende come Dell, Nike, Swatch si sono rapidamente adeguati. “La produzione di massa era tutta basata... sulla quantità, ma la personalizzazione di massa non dipende dalla quantità per essere reddittizia.”
E l’architettura? Ferma, inchiodata al sistema gerarchico lineare della realizzazione in-situ – secondo lo schema fondazioni, struttura, rivestimento, impianti, finiture - e a processi costruttivi ormai obsoleti. Gli architetti antepongono le infatuazioni per un nuovo materiale, per una nuova “tendenza”, alle problematiche concernenti la richiesta di personalizzazione in poco tempo, a basso costo e ad alta qualità, della produzione architettonica. Preferiscono rifugiarsi nell’ermetismo intellettuale invece che sfidare le imprese ad adeguarsi ai nuovi scenari o gli amministratori pubblici ad adeguare norme e regolamenti. Prediligono i fatui successi mondani all’impegno per tornare ad essere agenti del cambiamento.

Insomma, un’intera professione – a parte l’élite – è allo sbando e invece di rimboccarci le maniche ci viene chiesto di… credere alle favole delle leggi “popolari”.

Sui concorsi. Per anni, quando la cosa non era molto popolare, ho sostenuto il ricorso sistematico ai concorsi architettonici. Poi, quando sembrava avessimo vinto la battaglia, è un’iniziata l’involuzione ed ho cominciato a denunciarne la corruzione. Un sistema che ha prodotto si opere architettoniche di valore ma ha anche generato, da un lato, i professionisti delle giurie (critici, direttori di riviste, direttori di istituzioni culturali, rappresentanti degli ordini) e, dall’altra, un’aristocrazia di architetti miliardari, famosi, privilegiati, che hanno dato l’assalto alla diligenza senza porsi troppi scrupoli etico-professionali. Un circolo vizioso che andrebbe smantellato e ripensato da cima a fondo (le idee non mancano di certo), invece cosa si propone? Di rafforzarlo e renderlo obbligatorio. Una “tirannia dei concorsi” come la definiva brutalmente Bay Brown dalle colonne di Architecture.

E che non sia il solo a pensarla in questo modo sui concorsi lo dimostrano le prese di posizione (ne riporto alcune per brevità) di colleghi italiani e stranieri che rigirano il coltello nella ferita.

I concorsi odierni sono “rigidamente controllati dagli Ordini professionali in accordo con il mondo accademico e talmente dettagliati, burocratizzati ed onerosi da impedire nei fatti a molti professionisti, giovani in particolare, la partecipazione fin dalla lettura del bando”. (Beniamino Rocca su Spazio Architettura)

Appena dieci anni fa, il tipo di lavoro che facciamo per i concorsi era chiamato sviluppo progettuale, ora lo chiamiamo marketing”, (C. Hoover III sulla rivista americana Architecture).

Cosa può fare uno in un mese per risolvere legittimamente un problema, altro che creare una bella immagine? Questo è come i concorsi vengono vinti. Non perchè risolvi i problemi della circolazione, lo fai meno costoso e ricerchi nuovi materiali, lo vinci con un’immagine che seduce la commissione giudicatrice.” (Timothy P. Hartung sempre sulla rivista Architecture).

I concorsi greci sono un’affare di un gruppo di architetti che, dipende dal caso, cambiano ruolo come giudici, vincitori o consulenti palesi (nel migliore dei casi) o ‘silenziosi’ (la maggior parte delle volte) di alcuni giovani architetti che dai banchi di scuola si ritrovano fianco a fianco con Santiago Calatrava e Jean Nouvel.” (Ath. Zoulias, sul suo website). Anche in altri paesi, Italia compresa, accade esattamente la stessa cosa.

Recentemente ho seguito la vicenda di alcuni di questi concorsi in particolare quello di Qualità Italia a Siracusa e i risultati sono stati pessimi. Il concorso èstato annullato per incongruenze processuali e grandi architetti del calibro di Bohigas sono stati esclusi per oscuri motivi dalla giuria. Casualmente tutti i professori della facoltà di architettura di Siracusa che partecipavano sono risultati idonei alla prima fase. Ed ancora casualmente uno dei membri della giuria era il preside della facoltà di architettura di Siracusa”. (Francesco Moncada intervistato sul sito ArchitetturaCatania)

I concorsi la panacea? Ricordo, a titolo d’esempio, che l’orrendo quartiere Zen di Palermo è il risultato di un concorso con tutti i crismi, vinto da Vittorio Gregotti. Un orrore che grida ancora oggi vendetta. Mentre le sistemazioni museali di Carlo Scarpa, uno dei più raffinati architetti moderni italiani, furono commissionate senza concorsi. Se si fossero tenuti, Scarpa non avrebbe potuto partecipare perché non era laureato in architettura. L’ordine di Venezia, a cui interessavano più i timbri che la qualità, lo trascinò due volte in tribunale per abuso della professione. Non un opera di Frank Ll. Wright, il più grande architetto (pur privo di laurea) del XX secolo, è frutto di un qualche concorso. Quando c’è, la qualità emerge sempre concorsi o no. Quando non c’è, i concorsi possono solo registrare la mediocrità.

A fronte di queste problematiche che attanagliano la disciplina, una rivista e 26 ordini professionali non hanno di meglio da fare che invocare l’intervento dello stato per imporre la “qualità” con i carabinieri. Da te, caro Presidente, mi sarei aspettato un sussulto di dignità non una resa senza condizioni a questa demagogia spiccia.

Concludo dicendo che la mancanza di qualità, sia del progetto che del prodotto finito, è ben lungi dall’essere un problema di natura legislativa e nascondersi dietro il dito di una proposta di legge è segno di carenza di idee e di coraggio intellettuale da parte di una corporazione che ha perso ogni contatto con la realtà.

Ti ringrazio per la cortese attenzione.

Cordialmente
Mariopaolo Fadda
28/3/2011

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