AT: Alludi ad una pittura che sia cosciente,
insomma, che l'unica sua possibilità é in fondo
la sua impossibilità stessa.
LA: Sì, la sua impossibilità, ma nell'articolazione
delle motivazioni di questa impossibilità, il che é
tutt'altro che semplice.
AT: Vorrei fare alcuni passi indietro, ora, e tornare
agli esordi del tuo lavoro di artista, sul finire degli anni
sessanta. La situazione ed i riferimenti culturali erano ovviamente
molto diversi da adesso, vi era un perso forse eccessivo degli
ideologismi. Come pensi sia cambiato, da allora, il tuo modo
di fare arte ?
LA: A guardare i miei quadri, sembrerebbe che il lavoro che
faccio adesso sia notevolmente diverso. A guardarne uno della
fine degli anni sessanta accanto ad un lavoro di adesso può
venire una specie di vertigine. Se invece si guarda una serie
di opere scandite nel tempo, allora si intravede una progressione,
anzi meglio: una concatenazione. Il mutare dell'atteggiamento
artistico per me dipende dal mutare della vita. Io credo che
il mio sia un lavoro fortemente autobiografico, quindi gli
eventi della vita (anche biologici) possono spostarne la prospettiva
speculativa e pittorica. Ad esempio: ti nasce un figlio. Questo
cambia tutto, perfino la pittura.
AT: Ciò che mi sembra rimasto costante, tuttavia,
é la tua duplice attitudine di incanto e nel contempo
disincanto verso la pittura. E' il tuo credo ma nel contempo
tu ne sei l'eretico.
LA: pittura non é mai stata una fede, per me, ma un
modo di essere, una cosa dalla quale non potevo prescindere
in quanto era il mio più autentico modo di comunicare
con la realtà, in maniera sorgiva e naturale. Pertanto
questo disincanto di cui tu parli può avere questo
significato autobiografico di fuggire continuamente da un
modo convenzionale di comunicare con la realtà e di
ipotizzarne un altro, chissà quale. Vuol dire, in fondo,
inventare un altro mondo. I miei quadri sono altri mondi,
conclusi in se stessi, con leggi proprie, con il sole che
sorge ad occidente e tramonta ad oriente. Vi si può
pensare che un tramonto sia un'alba.
AT: Il che potrebbe far pensare che in questo tuo disincanto
si celi una sottile vena di amarezza....
LA: Il punto é questo: che il dato pittorico é
indiretto, quindi non decodifica. Da lì viene la rabbia
ed un senso di impotenza. Non é una questione di qualità
dei risultati, é un fatto intrinseco alla pittura,
la sua grandezza ed insieme il suo limite. C’è
sempre il pericolo della cronaca mentre il ganglio del suo
meccanismo infinitesimale può svanire. E' questa complicazione
continua che dà lo scacco alla pittura e nello stesso
tempo la stimola, la giustifica. E' questa, insomma, l'impotenza
della pittura e da questo si deve fuggire: fuggire dalla dicotomia
continua fra poesia per allusioni (e non può che essere
allusione, altrimenti non é) e rabbia dell'operare,
del vivere, del non potersi riscattare nella pittura. Con
un po’ di amarezza si può dire che la pittura
non dà riscatto, conferma la condanna.
AT: Quindi la pittura non salva.
LA: Personalmente non l'ho mai creduto. Mi ricordo certe discussioni
di un tempo: c'era l'impegno politico, c'era l'arte impegnata
e solo quella. Ma ora non voglio entrare in argomenti di questo
tipo; sarebbe troppo complicato e forse troppo serio. Ho sempre
saputo, però, che la pittura ha un imponderabile non
riducibile a questo suo ruolo sociale, un ruolo che d'altro
canto io non mi sento di rivendicare. Io non sono per l'ideologizzazione
dell'arte e della cultura. Personalmente non lo posso fare
perché faccio un'altra cosa. Ma ci sono tuttavia grandi
artisti che ci sono riusciti. Io agisco nel dubbio.
AT: Penso a questo dubbio come un richiamo ad andare al
di là delle forme, ad oltrepassare e - consentimi il
termine - sfondare il piano verticale dell'opera, ponendosi
in quella stessa posizione di incanto-disincanto, nei confronti
delle immagini, di cui prima di parlava. D'altro canto, però,
rimane forte la sensazione che, in te, il modo stesso dell'organizzazione
formale riveli una certa neutralità, una certa qual
leggerezza. Il pensiero va alla Pop Art, insomma, a quel suo
peculiare non pronunciarsi sull'immaginario sociale di cui
pur faceva ampio uso.
LA: Al di là della Pop Art, parlerei della grande lezione
del Dada e del Futurismo. Queste sono le matrici di questo
mio atteggiamento leggermente qualunquistico verso la funzione
dell'immagine all'interno dell'opera. E dico qualunquistico
non in senso negativo, semmai in senso tecnico. Di neutralità,
appunto.
AT: Vorrei toccare ora un aspetto del tuo lavoro che mi
sembra particolarmente pregnante: quello della letterarietà
delle tue fonti ispirative. Un nome che ricorre spesso nei
tuoi scritti, ad esempio, é quello di Henry James.
LA: Come tutti sanno, James é lo scrittore dell'inespresso,
dell'indiretto, dell'allusivo. E' questo un modo di comunicare
che vorrei fosse anche mio. E' semplicemente la frase giusta
al punto giusto, James é uno degli scrittori che amo
ed ai quali devo molto. Come anche il Belli o Montale. Ci
sono luoghi della poesia di Montale che ho visitato dipingendo.
L'amore letterario entra nell'anima e si amalgama con i sentimenti,
viene metabolizzato e poi può anche divenire pittura....
AT: Questa tua letterarietà si rivela spesso nei
titoli dei tuoi lavori. Ce n’è uno, che recita:
"Di cose che poi non accadono", che mi sembra un
fulmineo componimento poetico. Senza dubbio il titolo rivesta
un'importanza particolare nelle tue opere.
LA: I miei titoli in sostanza vogliono dire questo: attenzione,
c’è una lettura dopo la lettura. Si può
sbucciare un quadro come un carciofino da intingere nell'olio.
Ed ogni buccia é una possibilità di lettura.
Può essere un paesaggio, poi un quadro sulle dissonanze
cromatiche, poi una ricerca su materiali nuovi o inediti.
Ancora: un quadro su figure che non comunicano ed ancora,
può essere il quadro di un quadro (entrambi inventati
ed uguali fra loro).
AT: Questo tuo insistere sulla pluralità o stratigrafia
dei significati deriva da un'impostazione intellettuale d'ascendenza
semiotico-strutturalistica ?
LA: Ho lavorato nella comunicazione pubblicitaria per pochissimo
tempo, da giovane, ma é stata una straordinaria scuola
di vita. Ma non mi ha insegnato tanto a comunicare, quanto
a capire l'enigma della comunicazione, la sua sostanziale
impossibilità, il che forma ancor oggi il reticolo
tematico del mio lavoro e del quale abbiamo parlato finora.
Da un punto di vista intellettuale, devo ammettere che non
mi perdo molto a leggere trattati di semiologia. Mi perdo
tuttavia a lambiccarmi il cervello sui fatti, sulle cose,
sugli enigmi emotivi e sentimentali che costituiscono la struttura
del vivere quotidiano. La mia, se vuoi, é una semiologia
del quotidiano, del vivere continuo, delle sue motivazioni
minimali.
AT: Mi viene da chiedere, in questo senso, se c’è
qualcosa che realmente ti aspetti dalla pittura.
LA: Mi aspetto quello che, puntualmente, accade quando un
quadro viene bene e cioè, semplicemente, la felicità.
Una felicità liquida, che gorgoglia, che ti dice che
hai fatto qualcosa di buono, di particolarmente buono.
AT: Questa é una risposta in chiave personale ed
esistenziale. Ma la mia domanda verteva sulla pittura come
sfera dell'espressione umana.
LA: Mi aspetto poco, in questo caso. Considero la pittura
come qualcosa di superato. Non per fare il neo-poverista o
il neodada, ma credo davvero che sia una sublime arte anacronistica.
In fondo ne abbiamo già parlato, siamo in una situazione
in cui la pittura è assolutamente sorpassata: c’è
malgrado se stessa. Nello stesso tempo, e questa é
la sua duplicità ed anche il suo grande fascino, la
pittura ti dà, forse più di altre espressioni
artistiche, il documento di quello che sta accadendo. Non
il documento cronachistico del cinema o della televisione,
ma il documento di quello che é nascosto. E' il documento
visivo dell'anima di quel momento preciso. Mi viene in mente
il cinema, per esempio il neorealismo, Rossellini con il suo
"Roma città aperta". Cos’è stato
? Semplice: aprivano l'obiettivo della macchina da presa e
la realtà entrava dentro, direttamente. Questo era
il neorealismo. Ora, la pittura é una finestra che,
se aperta (e se é la finestra giusta) fa entrare la
realtà. Può essere una realtà trasognata,
come nel mio caso, oppure una realtà precisa, nitida,
come quella di altri artisti, oppure una realtà mentale,
come quella di altri ancora, In ogni caso, come dicevo, la
buona pittura fissa l'anima di un momento della storia.
AT: Quindi non un'anima personale o individuale, ma, verrebbe
da dire, quasi un'anima del mondo.
LA: Un'anima delle cose, più che un'anima del mondo.
Nella pittura c’è un'ambizione ontologica. Guarda,
qui c’è una finestra e lì c’è
un quadro sono nella posizione l'uno accanto all'altra: qual’è
la finestra ? Qual è il quadro ?
AT: Non vi é forse una valenza utopica in questa
reciprocità, in questo farsi l'uno analogato dell'altra
? In fin dei conti, la pittura rimane un linguaggio artificiale
che però aspira in qualche modo a farsi natura.
LA: Nel momento in cui qualcuno decide di dipingere un quadro,
compie un gesto di utopia e la pittura ha a che fare sempre
con l'utopia, é utopia di per se stessa. E ciò
vale per qualsiasi pittura. Forse la quantità di sostanza
utopistica di un quadro (la si raggiunga con lo stile, con
la coscienza, con la ricerca) é indice della sua qualità,
é uno dei possibili metri di misura della qualità
dell'opera.
AT: Del resto, questo carattere di artificio é
ben esplicitato proprio dalla tua pittura, in quanto chiamata
a raccolta di figure che stanno insieme soltanto nella misura
in cui tu le organizzi insieme, ma che oggettivamente non
possono stare insieme. La domanda allora é: questo
artificio é parte fondamentale della verità
della tua pittura, o é solo uno strumento cui consegni
tecnicamente la tua espressione ?
LA: pittura é una grande amica che ti accompagna nella
vita. La verità é la verità. Voglio dire:
c’è la pittura e c’è la verità.
Cos’è un quadro ? Forse una coincidenza delle
due cose, La pittura non la fai proponendoti delle mete, la
pittura la fai e basta, non ha scopi, non ha intenzionalità.
Quindi, questo artificio di cui tu parli é qualcosa
di oscillante: certe volte mi rendo conto che é una
scenografia teatrale nella quale agisco, altre volte mi sembra
una realtà vera. In questa oscillazione fra artificiosità-artificiosità
ed artificiosità-realtà, in questo cangiare
continuo della mia stessa convinzione e quindi del mio stesso
atteggiamento verso l'operare e verso il contenuto dei miei
quadri si sviluppa e si determina il quadro. Il quadro é
una metamorfosi continua, una situazione variabile senza controllo
apparente.
AT: Mi sembra, e le tue parole me ne danno conferma, che
oggi il discorso sulla pittura (e della pittura) sia sempre
più assimilabile alla speculazione filosofica e non
solo dal verso critico. Si parla sempre più spesso
di pittura come forma o modo di una teoresi parallela e quella
filosofica. Anche in te trovo questa stessa inclinazione speculativa.
LA: Giustissimo. Non sono, naturalmente, un filosofo, sono
solo un pittore che dipinge cercando di capirne il perché.
Però ho il sospetto che spesso la pittura vada a surrogare
qualcos'altro e che questo qualcos'altro sia il campo della
speculazione filosofica. Forse si può addirittura andare
oltre e pensare che molte volte la pittura é il surrogato
di qualcosa di più importante della filosofia stessa:
può sostituire la moralità, l'etica.
AT: Sei nell'arte da quasi trent’anni. La pittura
ha coinciso, come hai detto, con la tua biografia, anzi, é
stata in qualche modo la tua stessa autobiografia. Quali sono
state le peculiarità di un rapporto così stretto
e personale con la pittura?
LA: Se penso all'autobiografia, penso a qualcosa di letterario.
L'autobiografia é insomma un parto letterario irriducibile.
La pittura fa sì autobiografia, ma si tratta di un'autobiografia
ancor più soggettiva: quella di ciò che vedi,
non di ciò che sei. Un film od un libro hanno un tempo
narrativo e per questo sono assimilabili. Un quadro non ha
tempo narrativo, quindi non ci può riprodurre la durata,
il corso della vita, la concatenazione degli eventi; tuttavia
la pittura può fare e di fatto é autobiografia
di un artista, nel senso che coincide con l'autobiografia
del suo campo visivo.
AT: Si dice, dei grandi pensatori, che essi in realtà
pensino un unico pensiero. Credi che ciò sia asseribile
per i pittori?
LA: Sì, senz'altro. e si può dire anche di più:
non solo il pittore dipinge il medesimo quadro, ma dipinge
sempre se stesso.
AT: Vi é qualcosa di narcisistico in questo?
LA: No. Solo che é così. La grandezza di certi
artisti é nell'oggettivazione che fanno di se stessi.
Un pittore dipinge sempre se stesso ed il suo tempo - penso
a Masaccio, per esempio -e riesce ad unire questi due elementi
di interno ed esterno. A questo proposito, ricordo che qualche
anno fa venne organizzata a Bologna una mostra sul tema dell'autoritratto.
Io feci un paesaggio e sostenni quello che sostengo adesso:
che un pittore fa sempre il proprio autoritratto anche se
dipinge un paesaggio.
AT: Vorrei chiederti, infine, se sei disposto a fare,
qui, un bilancio personale della tua vita.
LA: Per quanto riguarda il passato: ho la fortuna di dimenticarlo.
E poi ho un'altra fortuna, superiore a quella di dimenticarlo:
di ricordarlo. Certe volte penso di vivere e lavorare sempre
con lo sguardo rivolto al passato, ma il passato non é
oggetto di bilancio, ma forse di ritorni, di ritorni impossibili.
Questo genere di ritorni sono sempre impossibili e dettano,
dunque, quadri impossibili. Sono quelli che sto facendo.
AT: Sembra che per te la pittura abbia solo il presente.
LA: Diciamo che trovo il presente qualcosa di coatto. Come
ognuno di noi, vorrei poter spaziare nel passato e nel futuro.
E' un sogno infantile (come volare, ad esempio). E come molti
sogni non é comprensibile, non é risolvibile.
Ci porta inevitabilmente ad un altro sogno e poi ad un altro
ancora. Come la pittura, certi sogni non si spiegano che così,
con altri sogni.
Mitigliano, giugno-luglio 1994 |