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Fotografia: una tecnica, tra arte e scienza
di Erica Lacava
pubblicato il 1/04/2007
"Senza l’angoscia del precario non c’è bisogno di memoriale. Gli immortali non si fotografano tra loro. Dio è Luce, solamente l’uomo è fotografo." (Régis Debray)
La comparsa della fotografia nella Parigi ottocentesca suscita reazioni contrastanti, generalmente entusiastiche nell’ambiente popolare che in quello scientifico e piuttosto tiepide e timorose nell’ambito artistico, con qualche veemente reazione che contribuirà, con la sua forza criticamente negativa, a definire le caratteristiche del mezzo.
Le dispute che animavano la società artistica ed intellettuale dell’epoca in merito alla natura della fotografia erano incentrate sull’attribuire o meno al nuovo mezzo un carattere di artisticità, e, in mancanza di questo, di giustificare la sua esistenza nei termini di un valido ed utile progresso per le scienze.
Ricondurre la forma ignota del mezzo fotografico a forme preesistenti già codificate, quali, nelle arti, il quadro o l’incisione, ha portato la fotografia a un faticoso cammino di ricerca d’identità che, disconoscendo e rinnegando le proprie peculiarità, ha occultato quel potenziale nascosto, emerso chiaramente solo nella riflessione teorica nell’ultimo quarto del Novecento [2], che tanto avrebbe influito sull’arte contemporanea.

Servendoci dell’espressione coniata da Bourdieu possiamo definire media la fotografia per il suo collocarsi spazialmente tra le zone d’interesse della tecnica e dell’arte, necessariamente coinvolte entrambe nel tentativo di dare al nuovo mezzo una determinazione e una delimitazione chiara dei propri confini.
Nelle storie della fotografia scritte dalla sua invenzione ad oggi, si ritrova spesso l’ombra di quel dibattito che oppose arte e scienza al momento di definire il carattere della fotografia e dei suoi inventori, se determinati in prevalenza dall’estrazione scientifica oppure artistica.
Per Piero Berengo Gardin se al principio la fotografia era un mezzo che, per difficoltà di utilizzo e comprensione dei meccanismi, selezionava rigorosamente i suoi destinatari in base alla loro estrazione scientifica, anche in seguito alla massificazione del suo utilizzo ha mantenuto questo carattere tecnico tanto da essere diventata «un “codice iconico” per il linguista, un “sociodramma” per l’antropologo e un fatto d’“arte” per l’accademico di gusto» [3] .
Dello stesso parere sembra essere lo storico dell’arte Beaumont Newhall, un tempo direttore della George Eastman House di Rochester, New York, che definisce la sua descrizione storica, in cui abbondano esperimenti e formule chimiche, una ricostruzione «dal punto di vista scientifico e tecnologico» [4] per contrapposizione alla sua precedente storia delle immagini [5] condotta attraverso un percorso tra gli autori della fotografia, contribuendo, con questo dualismo scientifico-artistico, ad avvallare l’ipotesi di attribuzione di una genesi di tipo tecnico piuttosto che artistico.

Allo stesso modo si è cercato di difendere il carattere scientifico della fotografia rintracciandolo geneticamente nelle professioni dei loro scopritori, ora fisici, ora inventori di macchine strane [6].
Pur restando fermi i nomi principali degli inventori, sembrano essere, invece, di parere contrario Aaron Scharf, che sostiene che «la fotografia fu inventata da artisti, a vantaggio di artisti» [7] e Peter Galassi [8], direttore del Dipartimento di Fotografia del Museum of Modern Art di New York, che rivendica la maggiore importanza dell’arte grafica precedente, in particolar modo della pittura ma anche dell’incisione, sulle scoperte fisico-chimiche nello sviluppo delle condizioni di possibilità della fotografia, considerando fondamentale per il suo raggiungimento il ruolo tradizionalmente svolto dalla camera oscura e attribuendo a quegli stessi inventori, da altri definiti scienziati, la qualifica di artisti.

Ci sembra, quindi, utile affidarci al concetto di medianità come caratteristica saliente del mezzo fotografico per determinare giudizi sulla sua natura, dato che questa si adatta facilmente ad essere definita tanto scientifica quanto artistica, piegandosi ad una valutazione dipendente in larga misura dal campo di conoscenze e d’interesse del ricercatore, che in base a questi individua le tappe, i percorsi e i traguardi tecnicamente raggiunti con la fotografia.
Lungi dall’essere sfere d’analisi rigorosamente distinte, l’arte e la scienza trovano il loro punto d’incontro nel concetto di tecnica. Il corrispondente greco più approssimativo del termine arte è, infatti, techne, da cui deriva, con un leggero spostamento di significato, il nostro tecnica. Propriamente, la tecnica indicherebbe l’insieme delle operazioni necessarie a svolgere una determinata attività con particolari strumenti, tradizionali o tecnologicamente aggiornati, andando così ad indicare sia le capacità individuali di servirsi di questi ultimi sia il loro specifico campo d’impiego. Si vede, quindi, come la tecnica possa essere applicata sia all’arte sia alla scienza, che vanno a costituire i campi di attuazione pratica di un certo gruppo di conoscenze teoriche. Comunemente, però, si tende a distinguere un fare tecnico, cui si riferisce, con un’accezione ristretta, esclusivamente il saper fare, da uno artistico, cui si riserva il campo di attività delimitato da una maggiore ricerca di valori estetici, per quello che potremmo definire un residuo di eredità platonica.
Se Platone, infatti, teneva separate, come campi estranei l’uno all’altro, da una parte le doti comuni dell’arte e della scienza, frutto unicamente di studio e d’applicazione, e, dall’altra, l’eccezionale dono d’ispirazione delle Muse, che rende «ispirati e invasati»[9] e che fa sì che «non per arte, non per scienza» [10] si diventi poeti [11], ma per «divina sorte, per esaltazione divina» [12], trasponendo la considerazione nella nostra attuale concezione dovremmo sostenere «non per tecnica ma per arte» si diventa artisti, e conferire a quest’ultima il valore supremo dell’ispirazione, negandolo invece alla prima.
Dovendo, in questo caso, distinguere tra valori artistico-estetici e conoscenze puramente scientifico-matematiche, preferiamo servirci, e più propriamente, della coppia arte-scienza, restituendo al termine tecnica tutta l’ampiezza e la ricchezza di significato che ha acquisito storicamente nella cultura occidentale.
È in ugual modo all’arte e alla scienza, infatti, che la nuova scoperta appartiene di diritto, come figlia di una pratica, di spirito tipicamente occidentale, che mette la scienza al servizio dell’arte e viceversa, in un connubio nato storicamente in ambiente greco e riaffermato con forza in due dei momenti maggiormente determinanti per lo sviluppo del processo fotografico, il Rinascimento e il Positivismo.
Presupposto essenziale per la nascita e anche solo per la concezione del pensiero di un’arte che fermi il continuum della vita in un’immagine è, anzitutto, una visione desacralizzata della rappresentazione, conseguenza di una visione laica della vita [13]. La progressiva emancipazione dai miti e l’affermarsi di una cultura basata sul logos, comparsa in concomitanza con la pratica alfabetica sviluppata per la prima volta nella Grecia del V secolo a. C.[14] , ha portato alla classica separazione tra eidos ed eidolon, noumeno e fenomeno, che tanto avrebbe influito sul futuro scientifico, filosofico ed artistico dell’Occidente.

Le prime e più dirette conseguenze teoriche del nuovo modo di rapportarsi con il mondo si trovano nel Sofista platonico, dove è esplicitamente in atto la distinzione tra ciò che è realmente e ciò che è solo simile al vero, ossia «rappresentazione somigliante» [15]. Tale distinzione, che, «per la prima volta nella storia, conferisce alla rappresentazione figurativa uno statuto fenomenico proprio» [16] con valore di apparenza, in modo da differenziarlo dialetticamente dall’essere in quanto tale, avrebbe reso possibile il costituirsi della prima cultura figurativa, esplicitamente dedita alla ricerca della resa realistica, otticamente fedele.
Accanto ad un pensiero filosofico dominante che prima fonda la distinzione tra essere ed apparire e poi segue per secoli la strada della ricerca dell’essenza, si è dunque sviluppato un fare arte strettamente legato all’altro polo d’indagine, quello dell’effimero e del fuggevole apparire delle cose. In nessun altro ambito, dunque, avrebbe potuto crescere ed affermarsi la fotografia, se non in uno predisposto da decine di secoli di cultura fenomenica, che fanno della fotografia l’arte che «porta dentro di sé tutto lo spirito dell’Occidente» [17].

Da un originario stupore e ammirazione per il mondo nasce dunque la volontà di preservare l’immagine dal suo dissolvimento, di fissare per sempre la «memoria dello sguardo» [18], di ancorare un pensiero, uno stato di cose, un istante, e fermare così il suo correre rapido nel tempo. Régis Debray ancora saldamente la nascita dell’immagine all’esperienza della morte, seguendo una genealogia che ne rintraccia l’origine nei primi segni d’ocra su ossa e nelle maschere funerarie e che fa delle «sepolture dei grandi […] i nostri primi musei, e i defunti stessi i nostri primi collezionisti» [19].
Se la sepoltura è il passaggio certificato dal primate all’uomo, il primo sintomo di un grande cambiamento emotivo, conoscitivo, sociale e culturale delle prime comunità, non di meno costituisce la prima fondazione di uno statuto al contempo artistico e religioso.
Il primo grande mistero che si presenta all’uomo di ogni epoca, il trovarsi di fronte ad un suo simile non più vivo ma non per questo diventato mero oggetto, un alter ego in cui fino ad allora si era potuto specchiare e in cui d’un tratto non può più identificarsi, costituisce allora, per la specie antropica, una rivelazione, il corrispondente dello stadio lacaniano dello specchio.
Trovare il modo di rendere quest’immagine contraddittoria dell’altro, presente e al contempo assente, costituirebbe quindi il più efficace esorcismo dello spettro del morto, di cui ci si libera nel momento stesso in cui lo si materializza in una nuova forma, quella appunto dell’immagine, docile doppio di una presenza altrimenti difficilmente gestibile.
«La plastica è un terrore addomesticato» [20], sintetizza efficacemente Debray.
Gli stessi termini con cui siamo soliti indicare le immagini hanno un’origine mortuaria, da simulacrum, che significa spettro, a figura e idolo, che indicano originariamente i fantasmi, a imago, il calco in cera del viso dei defunti, a segno, dal greco sema, pietra tombale [21].
Dalla rappresentazione idealizzata, in cui domina la fissità dei gesti a sancire l’eternità e la solennità, all’«ideologia dell’istantanea» [22], espressione visiva del fenomeno fugace, dell’eidolon, già prefigurata dallo scorcio prospettico greco, dai primi segni sulla pietra all’invenzione della fotografia c’è dunque un unico e ineluttabile cammino verso la realizzazione di un’idea, il bisogno di rendere eterno ciò che per sua natura è fuggevole, e proprio «in questo senso la fotografia è negazione della morte e al tempo stesso espressione della convinzione della temporalità di ogni esistenza, dell’oscillazione dell’ente tra l’essere e il nulla» [23].

A questo bisogno di fermare il tempo si aggiunge la valutazione positiva che l’Occidente dà della macchina come utile strumento, considerazione già greca e romana ma all’epoca poco applicata a causa della grande disponibilità di manodopera schiavistica, ed entrata quindi in vigore solo successivamente grazie al pensiero cristiano che fa della macchina un simbolo dell’intelligenza creatrice dell’uomo, e per suo riflesso del suo creatore, e al tempo stesso esercizio di pietà nei confronti degli uomini, considerati tutti ugualmente degni di essere liberati dalle fatiche della natura. Nasce così quell’«ideologia della macchina» [24]che verrà perfezionata nel corso dei secoli, prima dal pensiero empirico secentesco, poi dal positivismo ottocentesco, e che, unita all’ideologia dell’istantanea, costituirà la base di possibilità dell’invenzione fotografica.


[1] R. Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, Editrice Il Castoro, Milano 1999, pp. 26-27.
[2]Cfr. C. Marra, Le idee della fotografia: la riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 4. Marra sostiene che è partire dagli anni Sessanta che il dibattito sulla fotografia ha superato l’episodicità e ha iniziato a farsi corposo e disciplinariamente differenziato, probabilmente, aggiungiamo noi, sotto l’influenza delle prime teorie mediologiche.
[3]P. Berengo Gardin, Fotografia: l’occhio di un ciclope dietro l’obiettivo, contenuto in ed. it. di P. Bourdieu, La fotografia: Usi e funzioni sociali di un’arte media, Guaraldi, Firenze 1972, p. 20.
[4]B. Newhall, L’immagine latente. Storia dell’invenzione della fotografia, Zanichelli, Bologna 1980, p. 2.
[5]B. Newhall, The History of Photography from 1839 to the Present Day, New York, The Museum of Modern Art, 1964.
[6]È quanto fa D. Mormorio cercando di ricostruire la storia della fotografia fondandola sulla cultura occidentale della macchina, e rivendicando per Niépce, inventore del pyréolophore, un motore per imbarcazioni, e, a ragione, per Talbot, fisico della Royal Academy, la qualifica di scienziati. Cfr. D. Mormorio, op. cit., pp. 41 sgg.
[7]A. Scharf, Arte e fotografia, Einaudi, Torino 1979, p. 16.
[8]P. Galassi, Prima della fotografia. La pittura e l’invenzione della fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 15-18.
[9]Platone, Ione, V, citato in S. Zecchi, E. Franzini, Storia dell’Estetica, Il Mulino, Bologna 1995, p. 44. Poco oltre: «questi bei poemi non siano umani, non frutto di uomini, ma divini, frutto di dei, e come i poeti non siano altro che interpreti degli dei, invasati ciascuno da quel certo dio che li ispira».
[10]Ivi, p. 46. Più volte nello stesso passo è ripetuta l’espressione non per arte: «non per arte, ma perché ispirati e invasati dalla divinità», «non per arte cantano e dicono molte cose belle», «non, dunque, per arte cantano, ma per quel certo potere divino, ché se per arte sapessero parlare bene di un solo argomento, ugualmente bene saprebbero parlare di tutti». Ivi, pp. 44-45.
[11]Nella scala gerarchica delle arti composta da Platone nel X libro della Repubblica il poeta occupa il primo posto, mentre il pittore trova collocazione solo al 4 posto allo stesso livello dell’artigiano.
[12]Ivi, p. 46.
[13]Cfr. D. Mormorio, op. cit., pp. 23 sgg.
[14]Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1990 e C. Di Martino, Il Medium e le Pratiche, Editoriale Jaca Book, Milano, 1998, pp. 153-197.
[15]Platone, Sofista, 240 a-b, citato in D. Mormorio, op. cit., p. 24 nota 7.
[16]D. Mormorio, op. cit., p. 26.
[17]Ivi, p. 13.
[18]I. Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, Bari, 1982, p. 1.
[20]R. Debray, Vita e morte dell’immagine, cit., p. 22.
[21]Ivi, p. 21.
[21]D. Mormorio, op. cit., p. 30.
[22]Ivi, pp. 21-25.
[23]Ivi, p. 18.
[24]Ivi, p. 42.

link:
Fotografia: origini di un'arte media
L'arte media di Bourdieu: una fiorente polisemia


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