La comparsa della fotografia nella Parigi ottocentesca
suscita reazioni contrastanti, generalmente entusiastiche nellambiente
popolare che in quello scientifico e piuttosto tiepide e timorose
nellambito artistico, con qualche veemente reazione che
contribuirà, con la sua forza criticamente negativa,
a definire le caratteristiche del mezzo.
Le dispute che animavano la società artistica ed intellettuale
dellepoca in merito alla natura della fotografia erano
incentrate sullattribuire o meno al nuovo mezzo un carattere
di artisticità, e, in mancanza di questo, di giustificare
la sua esistenza nei termini di un valido ed utile progresso
per le scienze.
Ricondurre la forma ignota del mezzo fotografico a forme preesistenti
già codificate, quali, nelle arti, il quadro o lincisione,
ha portato la fotografia a un faticoso cammino di ricerca didentità
che, disconoscendo e rinnegando le proprie peculiarità,
ha occultato quel potenziale nascosto, emerso chiaramente solo
nella riflessione teorica nellultimo quarto del Novecento
[2], che tanto avrebbe influito sullarte contemporanea.
Servendoci dellespressione coniata da Bourdieu possiamo
definire media la fotografia per il suo collocarsi spazialmente
tra le zone dinteresse della tecnica e dellarte,
necessariamente coinvolte entrambe nel tentativo di dare al
nuovo mezzo una determinazione e una delimitazione chiara
dei propri confini.
Nelle storie della fotografia scritte dalla sua invenzione
ad oggi, si ritrova spesso lombra di quel dibattito
che oppose arte e scienza al momento di definire il carattere
della fotografia e dei suoi inventori, se determinati in prevalenza
dallestrazione scientifica oppure artistica.
Per Piero Berengo Gardin se al principio la fotografia era
un mezzo che, per difficoltà di utilizzo e comprensione
dei meccanismi, selezionava rigorosamente i suoi destinatari
in base alla loro estrazione scientifica, anche in seguito
alla massificazione del suo utilizzo ha mantenuto questo carattere
tecnico tanto da essere diventata «un codice iconico
per il linguista, un sociodramma per lantropologo
e un fatto darte per laccademico di
gusto» [3] .
Dello stesso parere sembra essere lo storico dellarte
Beaumont Newhall, un tempo direttore della George Eastman
House di Rochester, New York, che definisce la sua descrizione
storica, in cui abbondano esperimenti e formule chimiche,
una ricostruzione «dal punto di vista scientifico e
tecnologico» [4] per contrapposizione alla sua precedente
storia delle immagini [5] condotta attraverso un percorso tra
gli autori della fotografia, contribuendo, con questo dualismo
scientifico-artistico, ad avvallare lipotesi di attribuzione
di una genesi di tipo tecnico piuttosto che artistico.
Allo stesso modo si è cercato di difendere il carattere
scientifico della fotografia rintracciandolo geneticamente
nelle professioni dei loro scopritori, ora fisici, ora inventori
di macchine strane [6].
Pur restando fermi i nomi principali degli inventori, sembrano
essere, invece, di parere contrario Aaron Scharf, che sostiene
che «la fotografia fu inventata da artisti, a vantaggio
di artisti» [7] e Peter Galassi [8], direttore del Dipartimento
di Fotografia del Museum of Modern Art di New York, che rivendica
la maggiore importanza dellarte grafica precedente,
in particolar modo della pittura ma anche dellincisione,
sulle scoperte fisico-chimiche nello sviluppo delle condizioni
di possibilità della fotografia, considerando fondamentale
per il suo raggiungimento il ruolo tradizionalmente svolto
dalla camera oscura e attribuendo a quegli stessi inventori,
da altri definiti scienziati, la qualifica di artisti.
Ci sembra, quindi, utile affidarci al concetto di medianità
come caratteristica saliente del mezzo fotografico per determinare
giudizi sulla sua natura, dato che questa si adatta facilmente
ad essere definita tanto scientifica quanto artistica, piegandosi
ad una valutazione dipendente in larga misura dal campo di
conoscenze e dinteresse del ricercatore, che in base
a questi individua le tappe, i percorsi e i traguardi tecnicamente
raggiunti con la fotografia.
Lungi dallessere sfere danalisi rigorosamente
distinte, larte e la scienza trovano il loro punto dincontro
nel concetto di tecnica. Il corrispondente greco più
approssimativo del termine arte è, infatti, techne,
da cui deriva, con un leggero spostamento di significato,
il nostro tecnica. Propriamente, la tecnica indicherebbe linsieme
delle operazioni necessarie a svolgere una determinata attività
con particolari strumenti, tradizionali o tecnologicamente
aggiornati, andando così ad indicare sia le capacità
individuali di servirsi di questi ultimi sia il loro specifico
campo dimpiego. Si vede, quindi, come la tecnica possa
essere applicata sia allarte sia alla scienza, che vanno
a costituire i campi di attuazione pratica di un certo gruppo
di conoscenze teoriche. Comunemente, però, si tende
a distinguere un fare tecnico, cui si riferisce, con unaccezione
ristretta, esclusivamente il saper fare, da uno artistico,
cui si riserva il campo di attività delimitato da una
maggiore ricerca di valori estetici, per quello che potremmo
definire un residuo di eredità platonica.
Se Platone, infatti, teneva separate, come campi estranei
luno allaltro, da una parte le doti comuni dellarte
e della scienza, frutto unicamente di studio e dapplicazione,
e, dallaltra, leccezionale dono dispirazione
delle Muse, che rende «ispirati e invasati»[9]
e che fa sì che «non per arte, non per scienza»
[10] si diventi poeti [11], ma per «divina sorte, per
esaltazione divina» [12], trasponendo la considerazione
nella nostra attuale concezione dovremmo sostenere «non
per tecnica ma per arte» si diventa artisti, e conferire
a questultima il valore supremo dellispirazione,
negandolo invece alla prima.
Dovendo, in questo caso, distinguere tra valori artistico-estetici
e conoscenze puramente scientifico-matematiche, preferiamo
servirci, e più propriamente, della coppia arte-scienza,
restituendo al termine tecnica tutta lampiezza e la
ricchezza di significato che ha acquisito storicamente nella
cultura occidentale.
È in ugual modo allarte e alla scienza, infatti,
che la nuova scoperta appartiene di diritto, come figlia di
una pratica, di spirito tipicamente occidentale, che mette
la scienza al servizio dellarte e viceversa, in un connubio
nato storicamente in ambiente greco e riaffermato con forza
in due dei momenti maggiormente determinanti per lo sviluppo
del processo fotografico, il Rinascimento e il Positivismo.
Presupposto essenziale per la nascita e anche solo per la
concezione del pensiero di unarte che fermi il continuum
della vita in unimmagine è, anzitutto, una visione
desacralizzata della rappresentazione, conseguenza di una
visione laica della vita [13]. La progressiva emancipazione
dai miti e laffermarsi di una cultura basata sul logos,
comparsa in concomitanza con la pratica alfabetica sviluppata
per la prima volta nella Grecia del V secolo a. C.[14] , ha
portato alla classica separazione tra eidos ed eidolon, noumeno
e fenomeno, che tanto avrebbe influito sul futuro scientifico,
filosofico ed artistico dellOccidente.
Le prime e più dirette conseguenze teoriche del nuovo
modo di rapportarsi con il mondo si trovano nel Sofista platonico,
dove è esplicitamente in atto la distinzione tra ciò
che è realmente e ciò che è solo simile
al vero, ossia «rappresentazione somigliante»
[15]. Tale distinzione, che, «per la prima volta nella
storia, conferisce alla rappresentazione figurativa uno statuto
fenomenico proprio» [16] con valore di apparenza, in
modo da differenziarlo dialetticamente dallessere in
quanto tale, avrebbe reso possibile il costituirsi della prima
cultura figurativa, esplicitamente dedita alla ricerca della
resa realistica, otticamente fedele.
Accanto ad un pensiero filosofico dominante che prima fonda
la distinzione tra essere ed apparire e poi segue per secoli
la strada della ricerca dellessenza, si è dunque
sviluppato un fare arte strettamente legato allaltro
polo dindagine, quello delleffimero e del fuggevole
apparire delle cose. In nessun altro ambito, dunque, avrebbe
potuto crescere ed affermarsi la fotografia, se non in uno
predisposto da decine di secoli di cultura fenomenica, che
fanno della fotografia larte che «porta dentro
di sé tutto lo spirito dellOccidente» [17].
Da un originario stupore e ammirazione per il mondo nasce
dunque la volontà di preservare limmagine dal
suo dissolvimento, di fissare per sempre la «memoria
dello sguardo» [18], di ancorare un pensiero, uno stato
di cose, un istante, e fermare così il suo correre
rapido nel tempo. Régis Debray ancora saldamente la
nascita dellimmagine allesperienza della morte,
seguendo una genealogia che ne rintraccia lorigine nei
primi segni docra su ossa e nelle maschere funerarie
e che fa delle «sepolture dei grandi [
] i nostri
primi musei, e i defunti stessi i nostri primi collezionisti»
[19].
Se la sepoltura è il passaggio certificato dal primate
alluomo, il primo sintomo di un grande cambiamento emotivo,
conoscitivo, sociale e culturale delle prime comunità,
non di meno costituisce la prima fondazione di uno statuto
al contempo artistico e religioso.
Il primo grande mistero che si presenta alluomo di ogni
epoca, il trovarsi di fronte ad un suo simile non più
vivo ma non per questo diventato mero oggetto, un alter ego
in cui fino ad allora si era potuto specchiare e in cui dun
tratto non può più identificarsi, costituisce
allora, per la specie antropica, una rivelazione, il corrispondente
dello stadio lacaniano dello specchio.
Trovare il modo di rendere questimmagine contraddittoria
dellaltro, presente e al contempo assente, costituirebbe
quindi il più efficace esorcismo dello spettro del
morto, di cui ci si libera nel momento stesso in cui lo si
materializza in una nuova forma, quella appunto dellimmagine,
docile doppio di una presenza altrimenti difficilmente gestibile.
«La plastica è un terrore addomesticato»
[20], sintetizza efficacemente Debray.
Gli stessi termini con cui siamo soliti indicare le immagini
hanno unorigine mortuaria, da simulacrum, che significa
spettro, a figura e idolo, che indicano originariamente i
fantasmi, a imago, il calco in cera del viso dei defunti,
a segno, dal greco sema, pietra tombale [21].
Dalla rappresentazione idealizzata, in cui domina la fissità
dei gesti a sancire leternità e la solennità,
all«ideologia dellistantanea» [22],
espressione visiva del fenomeno fugace, delleidolon,
già prefigurata dallo scorcio prospettico greco, dai
primi segni sulla pietra allinvenzione della fotografia
cè dunque un unico e ineluttabile cammino verso
la realizzazione di unidea, il bisogno di rendere eterno
ciò che per sua natura è fuggevole, e proprio
«in questo senso la fotografia è negazione della
morte e al tempo stesso espressione della convinzione della
temporalità di ogni esistenza, delloscillazione
dellente tra lessere e il nulla» [23].
A questo bisogno di fermare il tempo si aggiunge la valutazione
positiva che lOccidente dà della macchina come
utile strumento, considerazione già greca e romana
ma allepoca poco applicata a causa della grande disponibilità
di manodopera schiavistica, ed entrata quindi in vigore solo
successivamente grazie al pensiero cristiano che fa della
macchina un simbolo dellintelligenza creatrice delluomo,
e per suo riflesso del suo creatore, e al tempo stesso esercizio
di pietà nei confronti degli uomini, considerati tutti
ugualmente degni di essere liberati dalle fatiche della natura.
Nasce così quell«ideologia della macchina»
[24]che verrà perfezionata nel corso dei secoli, prima
dal pensiero empirico secentesco, poi dal positivismo ottocentesco,
e che, unita allideologia dellistantanea, costituirà
la base di possibilità dellinvenzione fotografica.
[1] R. Debray, Vita e morte dellimmagine. Una storia
dello sguardo in Occidente, Editrice Il Castoro, Milano 1999,
pp. 26-27.
[2]Cfr. C. Marra, Le idee della fotografia: la riflessione
teorica dagli anni sessanta a oggi, Bruno Mondadori, Milano
2001, p. 4. Marra sostiene che è partire dagli anni
Sessanta che il dibattito sulla fotografia ha superato lepisodicità
e ha iniziato a farsi corposo e disciplinariamente differenziato,
probabilmente, aggiungiamo noi, sotto linfluenza delle
prime teorie mediologiche.
[3]P. Berengo Gardin, Fotografia: locchio di un ciclope
dietro lobiettivo, contenuto in ed. it. di P. Bourdieu,
La fotografia: Usi e funzioni sociali di unarte media,
Guaraldi, Firenze 1972, p. 20.
[4]B. Newhall, Limmagine latente. Storia dellinvenzione
della fotografia, Zanichelli, Bologna 1980, p. 2.
[5]B. Newhall, The History of Photography from 1839 to the
Present Day, New York, The Museum of Modern Art, 1964.
[6]È quanto fa D. Mormorio cercando di ricostruire
la storia della fotografia fondandola sulla cultura occidentale
della macchina, e rivendicando per Niépce, inventore
del pyréolophore, un motore per imbarcazioni, e, a
ragione, per Talbot, fisico della Royal Academy, la qualifica
di scienziati. Cfr. D. Mormorio, op. cit., pp. 41 sgg.
[7]A. Scharf, Arte e fotografia, Einaudi, Torino 1979, p.
16.
[8]P. Galassi, Prima della fotografia. La pittura e linvenzione
della fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 15-18.
[9]Platone, Ione, V, citato in S. Zecchi, E. Franzini, Storia
dellEstetica, Il Mulino, Bologna 1995, p. 44. Poco oltre:
«questi bei poemi non siano umani, non frutto di uomini,
ma divini, frutto di dei, e come i poeti non siano altro che
interpreti degli dei, invasati ciascuno da quel certo dio
che li ispira».
[10]Ivi, p. 46. Più volte nello stesso passo è
ripetuta lespressione non per arte: «non per arte,
ma perché ispirati e invasati dalla divinità»,
«non per arte cantano e dicono molte cose belle»,
«non, dunque, per arte cantano, ma per quel certo potere
divino, ché se per arte sapessero parlare bene di un
solo argomento, ugualmente bene saprebbero parlare di tutti».
Ivi, pp. 44-45.
[11]Nella scala gerarchica delle arti composta da Platone
nel X libro della Repubblica il poeta occupa il primo posto,
mentre il pittore trova collocazione solo al 4 posto allo
stesso livello dellartigiano.
[12]Ivi, p. 46.
[13]Cfr. D. Mormorio, op. cit., pp. 23 sgg.
[14]Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore,
Milano 1990 e C. Di Martino, Il Medium e le Pratiche, Editoriale
Jaca Book, Milano, 1998, pp. 153-197.
[15]Platone, Sofista, 240 a-b, citato in D. Mormorio, op.
cit., p. 24 nota 7.
[16]D. Mormorio, op. cit., p. 26.
[17]Ivi, p. 13.
[18]I. Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza,
Bari, 1982, p. 1.
[20]R. Debray, Vita e morte dellimmagine, cit., p. 22.
[21]Ivi, p. 21.
[21]D. Mormorio, op. cit., p. 30.
[22]Ivi, pp. 21-25.
[23]Ivi, p. 18.
[24]Ivi, p. 42.
link:
Fotografia: origini di un'arte media
L'arte media di Bourdieu: una
fiorente polisemia
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